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POWs. Una sigla che, per chi non si interessi di storia, nulla dice. In realtà, abbondano, soprattutto nel mondo anglosassone, i lavori dedicati ai POWs, ovvero ai "Prisoners of War", prigionieri di guerra. Una storia quasi tutta moderna, che nasce con la guerra "en masse", figlia della leva "en masse", nefasta eredità prima giacobina poi napoleonica che termina con la fine dell'ultima guerra mondiale, e il faticoso approdo dell'Europa, almeno quella occidentale - la storia slava testimonia il contrario per l'Est - ad uno dei più lunghi periodi di pace che abbia mai conosciuto. Nel 2015, settant'anni. Una storia però che si intensifica in modo esponenziale nel lungo periodo in cui l'Europa, per usare la locuzione dello storico piemontese Enzo Traverso, ora docente a Cornell negli USA, era stata messa "a ferro e fuoco" tra il 1914, ma forse anche da prima, dalle guerre balcaniche prodromo del primo conflitto mondiale, fino al 1945. Una lunga guerra civile europea, se l'Europa concepiamo, anche solo distrattamente, come patria comune. Non è notissima la vicenda dei prigionieri di guerra italiani deportati in America dopo l'armistizio, o propriamente, secondo la formula originaria del trattato, poi addolcita per non far soffrire troppo le coscienze, la resa dell'8 settembre. Ne aveva parlato alcuni decenni fa Flavio Conti, in un libro appena ripubblicato da Il Mulino, "I prigionieri italiani negli Stati Uniti", con alcuni documenti aggiuntivi rispetto all'edizione originale, del 1986. Ma chi voglia farsi un'idea della vicenda da un punto di vista lievemente diverso, politico-diplomatico e storico-militare, e si tratta di vicenda non secondaria, sia per il numero altissimo di interessati, decine di migliaia, sia per il significato assunto negli anni cruciali della guerra civile italiana e in seguito, può leggere l'agile libro di Francesca Somenzari, "8 settembre 1943: Gli Stati Uniti e i prigionieri italiani" (Aracne, pp. 236, Euro 14).
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