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La lettura è “fuorviante” e il commento dell’autore passo dopo passo delle pagine heideggeriane testimonia tutta la fatica di stare dietro a questo folletto della foresta nera. Ad ogni modo… il primo spunto è proprio l’esercizio di mediazione di un autore come Heidegger. Se segui Heidegger nel fitto bosco il linguaggio si fa inerpicato come il paesaggio. Nell’introduzione si fa giustamente appello alla pazienza. È in fondo lo stesso presupposto di Heidegger nella sua piana meditazione volta a racimolare di volta in volta gli stessi pezzi che fanno da indagine all’essere, integrati dentro le grandi categorie di riferimento come Lichtung, Seyn, Da-sein, Ereignis, ecc. come i luoghi significativi del centro storico di una città. Forse ancor di più rispetto alle sei giunture di cui si parla nella pagina 38-39 tappe di un movimento interiore. Il Seyn è il non-luogo, mi si passi il termine inadeguato ma “accattivante”, perché è oggi il paradigma dove si costruiscono proprio i tanti “eventi” della nostra quotidianità. Sul Seyn a pag. 40 si dice: “L’appartenenza al Seyn si dà solo in un continuo abbandono delle posizioni raggiunte”. Questa affermazione mi ha fatto tornare in mente l’affermazione di René Char alla fine di Fabula mistica di Michel de Certeau: “In poesia si lascia il posto che si trova”. E quanto era primordiale la rappresentanza della poesia nei sentieri heideggeriani! A pag. 42 il dire sembra diventare la visibilità dell’evento stesso e anche qui mi tornano in mente tante considerazioni sul parlare nei mistici e il parlare angelico come lo esponeva Michel de Certeau. Un atto performativo che è già un fare che crea senso, materialmente, riutilizzando materiali non suoi. L’approccio con la scuola giapponese è semplicemente… stuzzicante. Piacevole e riempie di speranza. Mi rendo conto che siamo solo all’inizio. Ma ha fatto piacere questa traghettata senza sosta nella densa foschia della foresta del nord. Ne usciremo umidi, ma di un sudore che non è il nostro ma quello dell’origine della vita.
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