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Acciai speciali. Terni, la ThyssenKrupp, la globalizzazione - Alessandro Portelli - copertina
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Acciai speciali. Terni, la ThyssenKrupp, la globalizzazione
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Acciai speciali. Terni, la ThyssenKrupp, la globalizzazione - Alessandro Portelli - copertina
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Descrizione


Il 29 gennaio 2004, la multinazionale tedesca ThyssenKrupp annuncia la chiusura del reparto magnetico delle Acciaierie di Terni. Con sorpresa di tutti, una città che da tempo pensava di essersi tolta di dosso l'identificazione con la fabbrica e cercava - senza trovarle - identità alternative, si mobilita immediatamente attorno agli operai. Settimane di picchetti, blocchi stradali, solidarietà e preoccupazione: scene che a Terni si erano viste solo mezzo secolo prima, nella rivolta seguita ai tremila licenziamenti del 1953. Questo libro parte da quei giorni per raccontare in presa diretta, con gli strumenti della storia orale, della partecipazione osservante e della passione politica, le trasformazioni di una città industriale nell'era della globalizzazione. Ascolta i cambiamenti del mondo operaio - dalla tragica dismissione degli impianti di Torino alla piena espansione dell'acciaio indiano -, l'intreccio di culture del lavoro e culture giovanili, di linguaggi sindacali e linguaggi calcistici, di senso di classe e di impulsi nazionalistici, in una forza lavoro radicalmente cambiata, capace al tempo stesso di profondo oblio e di sorprendente memoria.
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Dettagli

2008
2 giugno 2008
Rilegato
9788860362612

Valutazioni e recensioni

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marco b.
Recensioni: 4/5

Chi legge questo libro si emoziona. Portelli è un maestro nell'orchestrare, con sensiblità e acutezza, una polifonia di voci, sentimenti, opinioni, passioni, delusioni ecc. Unica nota stonata, la testimonianza di Oreste Scalzone di cui, francamente, non si avvertiva alcun bisogno.

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Voce della critica

La ricerca di Portelli è un affresco del lavoro operaio e delle sue trasformazioni, è il profilo di un soggetto collettivo che si evolve nel tempo e travalica i confini dell'esperienza ternana, persino del lavoro siderurgico. Un testo incardinato sulla storia orale più che sul rigore analitico del testo sociologico, in cui le testimonianze dirette scandiscono l'argomentazione, tasselli preziosi di un filo rosso che prova a incrociare il tema della condizione sociale e produttiva del lavoro operaio a confronto con alcuni dei temi più significativi del nostro tempo: la cultura di classe, i legami con il territorio, il confronto generazionale, la cultura sociale e la memoria che attraversano i gangli della vita sociale, dalla famiglia al fenomeno calcistico nelle più diverse articolazioni espressive.
Il lavoro, quello che ha fatto tremare il Novecento, qui costituisce l'angolo visuale da cui guardare il mondo. La lente di ingrandimento delle contraddizioni del nostro tempo. Il punto di avvio è la fabbrica, la produzione siderurgica, che inizia dalla fine dell'Ottocento (1884 è l'anno di costituzione della Società Altiforni Fonderia e Acciaierie Terni) sino alla Ast (Acciai Speciali Terni), con capitale tedesco e italiano, e infine ThyssenKrupp. Una parabola che è anche una sfida di progettualità economica e sociale e riguarda il tentativo, verso la fine degli anni ottanta, di far transitare la realtà di Terni, la "Manchester italiana", verso un assetto produttivo in grado di salpare dalle ormai incerte sponde dell'economia fordista.
Un passaggio d'epoca che parte dalla crisi della company town e con essa di una struttura sociale e culturale di riferimento; il punto di avvio della crisi del comparto siderurgico è riconducibile al decennio ottanta e determina una contrazione significativa dell'occupazione; si passa dagli oltre 10.500 addetti del 1981 ai 360 del 2008, con passaggi cruciali di lotta e mobilitazione che segnano la coscienza collettiva dei lavoratori e della comunità ternana.
Sono molte le suggestioni che provengono dall'ordine del discorso dell'autore. In primo luogo la composizione sociale della forza lavoro e il rapporto con il territorio. Una forza lavoro che vede progressivamente venire meno l'architettura di potere contrattuale e rappresentanza costruita a partire dagli anni sessanta; ma anche un mondo del lavoro che trovava nel management delle aziende siderurgiche pubbliche negli anni cinquanta e sessanta, come emerge da alcune significative testimonianze, una possibilità di dialogo, anche se conflittuale, strutturata sul linguaggio condiviso della produzione. Un discorso che oggi appare ancora più lontano se consideriamo l'attacco culturale a cui è sottoposto il lavoro pubblico. È la critica esplicita a un ceto manageriale, orientato da un indirizzo di breve periodo e proteso al soddisfacimento di interessi immediati del capitale azionario, incapace di svolgere un ruolo dirigente e dare una prospettiva di modernizzazione ("Ce stanno li borghesi ma non la borghesia"), e di configurare un assetto sociale in grado di tenere insieme sviluppo e coesione sociale dopo la crisi del fordismo, e da qui determinare le condizione per l'affermarsi di nuovi diritti di cittadinanza industriale.
Una crisi manageriale ben visibile nel corso della rivolta del 2004 a seguito della decisione della ThyssenKrupp di chiudere "il reparto magnetico", considerato uno degli impianti nevralgici dell'intero stabilimento, cuore pulsante del processo produttivo e simbolo di una cultura produttiva e di una classe sociale; 450 operai a rischio occupazionale, che sfiorano il migliaio di unità se viene compreso l'indotto. La mobilitazione collettiva non si fa attendere e assume i contorni di una rivolta che ci riporta agli esordi della storia del movimento operaio (con tratti che richiamano alcune delle pagine più intense del realismo ottocentesco à la Zola), in cui la contesa industriale assume le caratteristiche della rivolta operaia, però in piena globalizzazione dei mercati. Sono tratti che chiamano in causa l'identità e l'organizzazione collettiva di una classe sociale in trasformazione, ridimensionata nel suo ruolo di protagonista di un assalto al cielo oggi smorzato nelle sue ambizioni, ma tutt'altro che estinta o tacitata. La rivolta e il "terrore sulle facce" del management della TyssenKrupp non solo testimoniano la gravita del conflitto, ma anche la sua debole regolazione.
Il confronto tra Davide e Golia, il conflitto tra capitale e lavoro nella terminologia classica, è strettamente correlato al rapporto con la città, con le sue pratiche relazionali, ovvero l'habitus che aveva strutturato i rapporti sociali ed economici sino a quel momento. Non semplicemente inteso come contesto sociale, bensì come visto da Bourdieu, l'habitus presenta un legame di dipendenza con il mondo sociale (è quindi un tessuto di relazioni strutturato), ma a sua volta lo condiziona, a partire dal ruolo dei comportamenti sociali nel definire pratiche e la loro percezione (è quindi una struttura di relazioni strutturante). La città e la fabbrica sono i due termini di un sistema complesso che investe tutte le articolazioni della vita sociale e collettiva: la famiglia e il rapporto tra le generazioni, la pratica della solidarietà che oltrepassa i tradizionali confini dell'appartenenza di classe (come emerso nel corso delle diverse mobilitazioni in difesa dell'occupazione e della produzione di acciaio), persino il rapporto con la squadra di calcio locale, la cui tifoseria ultras ha il nome di una brigata dedicata a un eroe delle Resistenza ternana. Quel tessuto che ha strutturato la cultura e la pratica sociale del movimento operaio e sindacale, nelle sue diverse appartenenze (in particolare al Partito comunista e alla Cgil) si inaridisce progressivamente, investendo direttamente i meccanismi che presiedono la regolazione del conflitto.
"Io non volevo difendere il magnetico a Terni, io volevo difendere una produzione unica dello stato italiano, (…) se voi pensate che noi siamo arrivati qui a Palazzo Chigi, dopo tutta una miriade di scioperi (…) perchè non riuscivamo a trovare la squadra per sistemare quattro-cinquecento persone, avete sbagliato". L'habitus di solidarietà presente nella comunità terzana individua nella perdita del posto di lavoro l'indicatore di un processo di espropriazione, che è al tempo stesso di garanzie, ma anche del ruolo di prospettiva esercitato dalla classe operaia, attore di trasformazione e innovazione nella difesa della politica industriale e dell'autonomia nazionale. È questo il filo rosso che attraversa l'intreccio di testimonianze del libro. Il ruolo storico di una classe sociale, parte di una progettualità che teneva insieme lavoro, orgoglio professionale, strutture di ricerca, tecnologia, insieme alla fabbrica in quanto luogo di socializzazione e di produzione culturale. Lo si percepisce ancora meglio se si affronta il tema della condizione del lavoro. Un lavoro segnato dalla fatica e dal rischio, ma anche da un orgoglio professionale, dall'idea della fabbrica come strumento di decisione e affermazione sociale, luogo nel quale i lavoratori esercitano autonomia e controllo.
In uno dei passaggi più interessanti del libro, quello sulla sicurezza, emerge il ruolo del sapere operaio non solo nei processi produttivi, ma anche nella conoscenza delle norme di sicurezza; un sapere tramandato di generazione in generazione secondo meccanismi di apprendimento incardinati sull'anzianità e sull'esperienza; e quando questo meccanismo di trasmissione dei saperi e delle informazioni si indebolisce l'insicurezza si trasforma in un rischio letale. L'indebolimento delle prassi e degli istituti del controllo operaio sul processo produttivo procede parallelamente all'estensione delle prerogative manageriali sull'organizzazione del lavoro, con un arretramento dei diritti di potere nei luoghi di lavoro esercitati dai lavoratori e dalle loro rappresentanze. Dopo la strage di Torino alla Thyssen nel 2007, il decreto legislativo 81/2008 interviene proprio sui diritti di potere veicolati da un rafforzamento dell'informazione e del coinvolgimento dei lavoratori in materia di salute e sicurezza.
Sono gli operai a costruire la fabbrica con il loro sapere e la loro esperienza; strutture sociali modellate da una costruzione cognitiva che si dispiega nell'azione collettiva, ma investe anche le agenzie di socializzazione della comunità territoriale. Un processo insieme sociale e culturale, che tuttavia ha dato i primi segnali di crisi con l'entrata delle nuove generazioni in fabbrica, nel confronto tra la loro formazione e la memoria. Qui si inserisce un nuovo elemento di cleavage, di rottura rispetto al passato: il passaggio generazionale, ma anche la mobilità sociale. Dalla fine degli anni settanta entrano in fabbrica nuove generazioni, di provenienza urbana e con un percorso di scolarizzazione superiore a quello delle generazioni precedenti. L'accesso al sapere segna uno degli indicatori di mobilità sociale verticale rispetto alla famiglia di origine; la fabbrica è un'esperienza alla quale si accede con percorsi eterogenei e differenti, ma con gli anni cambia il processo produttivo e con esso il tessuto di relazioni che presiedeva e strutturava la comunità operaia. Viene meno quella continuità familiare del lavoro in fabbrica (il figlio che succede al padre) tipico della company town, e dai qui le strategie di fidelizzazione dei dipendenti di memoria fordista, che non a caso ricompare nell'esperienza di paesi in via di sviluppo (come testimonia la digressione sullo stabilimento Thyssen in India).
Il lavoro in fabbrica, specie per le generazioni più anziane, era "normale"; prima di entrare in fabbrica la si conosceva dai racconti degli amici, dalla famiglia, la fabbrica nella sua potenza visiva e simbolica. Il lavoro materializzava un sapere tramandato, familiare. Lentamente questo legame si indebolisce, e la normalità si trasforma in separazione rispetto a categorie interpretative distanti. A questo si aggiungono le criticità della condizione giovanile, la droga e le sue più recenti evoluzioni. L'habitus della comunità operaia non riesce a trasformarsi e condizionare questi processi, li subisce e ne viene in qualche misura travolto. Qui si innesta un passaggio critico; da un lato il ricorso alle nuove forme di tossicodipendenza (cocaina, pasticche, ecstasy) sottolinea la mancanza di una soluzione di continuità tra il contesto sociale e la fabbrica. Soprattutto se consideriamo che il consumo di sostanze stupefacenti può essere letto come l'evoluzione di un ricorso a sostanze che tradizionalmente riguardavano in maniera esclusiva il consumo di alcol. Dall'altro lato, però, emerge un profilo di fabbrica, proprio in quanto spazio non separato, privo di quei filtri culturali in grado di promuovere un intervento critico e consapevole sulle forme sociali della devianza. La fabbrica conserva un ruolo di integrazione sociale, specie in rapporto al fenomeno dell'immigrazione; il lavoro operaio resta un terreno di inclusione e di abbassamento delle diffidenze e dei fenomeni di xenofobia, che invece trovano diffusione nel tessuto sociale.
Del lavoro operaio nella fabbrica siderurgica, e non solo quella, sopravvive il suo carattere infernale, i fumi, la combustione, gli schizzi di acciaio, la colata, la produzione di acciaio; quegli ingranaggi che forgiano l'acciaio. Sopravvive tra le maglie di un mondo globalizzato, con nuove contraddizioni e identità, il profilo di un lavoro che incarna quel sublime operaio che sfida il gigante, il demone della produzione; quella fabbrica, come scrive Portelli, che schiaccia e che esalta la fragilità dell'attività umana, ma le conferisce potere proprio perché la domina e la governa. Un potere che non deriva dal lavoro individuale, ma dall'essere parte imprescindibile e cosciente di un processo sociale complesso.
La fabbrica cessa di essere un luogo nel quale si "autocostituisce" una società altra, come scrive Barman; nonostante questo resta una realtà nella quale sono evidenti le nuove contraddizioni del rischio, dell'insicurezza, della precarietà, ma anche il luogo dal quale si possono ancora svelare i meccanismi che generano il dominio insieme al prospettiva della emancipazione sociale.
Igor Piotto

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