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In Imparare ad abitare, articolo pubblicato da Adolf Loos sul "Neue Wiener Tagesblatt" il 15 maggio del 1921, il programma è chiaro, sin dal titolo. "Dobbiamo imparare ad abitare". Occorrono uomini nuovi, "uomini che abbiano uno spirito moderno", in grado di rivedere e ritrattare tutto. Forme, stili, costumi, abitudini, regole, leggi, linguaggio. Un programma ampio, audace, tanto da condurre con facilità all'avvilimento e alla mortificazione. Come Aldo Rossi ha enfatizzato, "a una rabbia che è parente della delusione. Una delusione più vasta di quella sociale o personale, centrata su un'idea astratta, una battaglia che a priori ha un nemico inafferrabile non diverso da quello che per i mistici era il peccato".
La battaglia di Loos è mossa da un disgusto compatto, generale, pervasivo, che investe tutto e che non si doma. Più bruciante e penetrante che in altri maestri della nuova architettura internazionale dei primi del Novecento, nei loro moniti, lezioni, rimproveri. L'insofferenza di Loos non si placa nell'austera osservazione di forme e di tecniche elementariste, come in Tessenow, tanto meno negli slanci e nel trasporto d'arte di Poelzig o di Behrens (per attenersi alla generazione degli anni settanta, e per non citare i suoi connazionali). Non si pacifica nella comunione elitaria di un'accademia o nell'attività riformatrice di una scuola (come ad esempio nel Bauhaus), tanto meno va a confluire nell'onda del progresso e dell'innovazione che sospinge il dibattito occidentale, carico di entusiasmi e ottimismi, di colori e di macchine sempre più moderne, bizzarre, giocose. Sarà perché tutto questo non intacca il provincialismo austriaco di quegli anni (da qui il lamento doloroso di Loos quando, in patria, parla dell'amatoOccidente: "Quando lo racconto, la gente si mette a ridere. Ma a me viene da piangere"). Sarà per il carattere costitutivamente refrattario a euforie e celebrazioni di molta cultura mitteleuropea. Quindi per il ruolo privilegiato che gioca la polemica, la critica, l'ironia e la dialettica nel dibattito (si pensi alle invettive di Karl Kraus contro il giornalismo). Resta il fatto che la lezione di Loos è intrisa di un disappunto e di un'amarezza lucidamente spesi per niente, nel vuoto.
L'architettura di Loos pare così oscillare fra tentativi e volontà di interazione e di conflitto (non metaforico, se pensiamo al dissenso raccolto dall'edificio commerciale Goldman & Salatsch a Vienna nel 1911) e un sommesso, ma raschiante, continuo inserimento di corpi estranei, muti, nel contesto celebrativo consolidato. Le ville sembrano osservare questo secondo tipo di azione. Attraverso gli occhi piccoli e furbi di Villa Horner (1912), quelli severi e ammonitori di Casa Tristan Tzara (1925-26), quelli semichiusi ma vigili di Villa Moller (1927), l'intruso guarda e piange le amare lacrime che Loos non nasconde di versare.
Questa lettura, tra le possibili, fa eco a interpretazioni dell'opera architettonica e letteraria di Loos che durante l'ultimo secolo si sono susseguite. Numerose, benché frammentarie e mai esaustive. Dense, impegnative, quasi sempre mosse dall'esigenza di utilizzare il rimando per dimostrare urgenze, problematiche, malesseri da raccogliere nell'attualità di una necessità. Così è stato, ad esempio, nelle parole di Manfredo Tafuri, di Aldo Rossi, in quelle di Massimo Cacciari. Loos è maestro e mito perché ancora vivo e necessario, ogni volta entro differenti vesti, quelle dell'antieroe di qualsiasi movimento (Tafuri), quelle classiche dell'artista non originale (Rossi), quelle archetipiche dell'uomo nuovo europeo (Cacciari). Così vivo e presente da non poter essere trattato nell'interezza della sua figura, sia essa l'articolazione dei suoi movimenti così come l'immobilità di un suo piano fisso. La letteratura critica (in particolar modo quella degli anni ottanta) non aiuta quindi alla comprensione. Piuttosto la svia e la complica, lasciando spazio a riletture sofisticate in luogo della presa d'assieme.
Adolf Loos 1870-1933. Architettura. Utilità e decoro è il primo contributo in lingua italiana su Adolf Loos che affronta il problema della restituzione monografica della sua opera. Catalogo della mostra tenutasi presso la Galleria nazionale d'arte moderna, in collaborazione con l'Albertina di Vienna e l'Istituto storico austriaco a Roma, tra il dicembre 2006 e il febbraio 2007, ripercorre l'articolazione dell'esposizione attraverso otto sezioni che dettagliatamente illustrano profilo biografico dell'architetto, progetti internazionali, proposte per l'assetto urbano di Vienna, progetti di negozi e locali pubblici, progetti per l'edilizia sociale, oggetti d'uso, case unifamiliari, scritti e conferenze. Le sezioni che organizzano il catalogo sono precedute da dieci saggi che raccontano di Loos cosmopolita, di Loos nella Vienna del suo tempo e nel rapporto con l'architettura viennese, quindi della formazione e dell'evoluzione dei suoi principi e della sua pratica, in riferimento agli interni dei suoi edifici, agli esterni, in relazione alle influenze e ai contatti con alcuni specifici paesi, l'America, la Francia, la Cecoslovacchia, infine in relazione al rapporto con i committenti delle opere e al progetto di arredi fissi, mobili fino alla scelta dei marmi.
Il timore di un confronto con l'ingombrante letteratura depositata sembra superato, affrontato con disinvoltura attraverso il rigore di ricostruzioni puntuali, circostanziate, dettagliate ed esaurienti, capaci nell'insieme di fornire un quadro sistematico e compiuto. Ma anche piano, omogeneo, per molti aspetti sedato rispetto a quello fornito dalle letture che nel lavoro di Loos ricercavano, e trovavano, necessità. La sintesi è qui restituita attraverso due diverse categorie (non nuove, in riferimento al lavoro di Loos), quella dell'utile e del decoro. "Dell'utile come ragione della costruzione e del decoro come dignità del comportamento e dell'aspetto" (dall'introduzione dei curatori). La sintesi sembra così comportare un tentativo di normalizzazione che non implica comunque riduzioni. Dando luogo piuttosto a un lavoro utile e decoroso. Efficace nell'informazione e assolutamente vantaggioso nel colmare la lacuna italiana, accurato ed elegante nella forma, privo di accenti e di discordanze nell'esposizione e nel resoconto. Panoramica estesa e fluida, disinteressata all'evidenza del ragionamento così come alla narrazione e al racconto. Perfettamente rispondente alla forma e allo stile del recupero e della commemorazione oggi maggiormente praticati.
L'assenza di un esplicito carattere di necessità legato all'operazione di recupero e di restituzione pone un problema più ampio, che va oltre la mostra su Loos e la sua attesa monografia, implicando riflessioni sul modo in cui oggi sono onorati i doveri nei confronti della memoria. Questo onorare senza discutere sembra affrancarci, "molto meglio di quanto non saprebbe fare l'amnesia, da ogni debito nei confronti degli uomini del passato" (Alain Finkielkraut, L'ingratitudine, Excelsior 1881, 2007). Così si susseguono esposizioni, mostre e celebrazioni che vanno a saldare debiti e colmare lacune senza però chiarire bene perché e in nome di cosa. Fino a rendere equivalenti e ugualmente normali tutti i ricordi e tutte le rimozioni, tutte le celebrazioni e le commemorazioni con i loro cataloghi, rendiconti, informazioni e illustrazioni di fatti ed immagini.
Oggi, in riferimento a Loos, il problema si mostra con maggiore evidenza. Oggi, perché è evidente il fatto che la critica non c'è, e che quando c'è non ha possibilità di giudizio, non trovando appiglio entro categorie di necessità, non riuscendo a elaborare ipotesi di rilancio. In riferimento a Loos il problema si palesa di fronte a tutto, alle interpretazioni della sua opera e ai rimandi che a essa si sono susseguiti, non misurati, incisivi, nervosi, all'impeto e al trasporto delle sue battaglie, al suo tormento, oggi, forse più di ieri, e ancora lucidamente nel vuoto, non trascurabile.
Se è vero che tutti noi vorremmo che i disastri della nostra civiltà non fossero ricordati come oggetti storici uguali a tutti gli altri, e che, come ancora sostiene Finkielkraut, al contrario, dovremmo opporci a quest'opera di livellamento, allora anche quelli della civiltà "non ancora occidentale" di Loos andrebbero ricordati come tali, ed enfatizzati anche come tali, se non altro per il dolore da lui speso per narrarli quali disastri, appunto. Normalizzare il suo dolore riguarda anche la normalizzazione del nostro (Walter Siti, Un dolore normale, Einaudi, 1999).
Angelo Sampieri
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