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Descrizione


Il volume si presenta come una ricerca su un aspetto poco noto dei rapporti tra Italia e Germania nel periodo immediatamente precedente la seconda guerra mondiale e nel corso di essa. Si tratta della emigrazione puramente economica, anche se inquadrata dalle istituzioni fasciste, di centinaia di migliaia di italiani che andarono a lavorare in Germania con vantaggiosi contratti collettivi a termine. Durante la guerra, vennero a contatto con altri emigrati, deportati dalla Francia occupata, nonché con i prigionieri polacchi e russi dei lager, con i quali si trovarono fianco a fianco sul lavoro.
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Dettagli

1998
3 luglio 1998
348 p., ill.
9788833910871

Voce della critica


recensioni di Klinkhammer, L. L'Indice del 1999, n. 07

Tra il 1938 e il 1943 circa mezzo milione di italiani furono reclutati e trasferiti nella Germania nazista, dove vennero utilizzati come manodopera. Fino a pochi anni fa a questo importante capitolo della storia del regime fascista non era stata dedicata la minima attenzione. Che in Germania questi lavoratori potessero guadagnare in media circa il triplo di quanto erano pagati in Italia (sempre che in patria un lavoro ce l'avessero) non è l'aspetto decisivo di questo trasferimento di manodopera gestito e organizzato a livello statuale. Tuttavia ciò spiega molto bene come mai solo a partire dal 1941 il regime fascista dovette impiegare misure di coazione per completare le quote di manodopera concordate con la Germania nazista. Che lavoratori italiani venissero scambiati con materie prime tedesche rivela macroscopicamente come il governo italiano si fosse legato mani e piedi all'"Asse"; l'alleanza aveva portato a una dipendenza sempre più forte dell'Italia dallo strapotente alleato, dipendenza che - unitamente alla catastrofe militare conseguente all'attacco italiano alla Grecia - aveva di fatto reso l'Italia il primo dei satelliti del Terzo Reich. Alla ricostruzione di questo quadro complesso è dedicata gran parte dell'importante analisi di Brunello Mantelli Camerati del lavoro (La Nuova Italia, 1992; cfr. "L'Indice", 1993, n. 6).

In Al lavoro nella Germania di Hitler, Cesare Bermani prende invece in esame un altro e diverso aspetto di questo episodio così importante per la storia italiana e tedesca: le esperienze che quegli italiani fecero in Germania e lo choc culturale che - sotto molti aspetti - essi subirono. L'autore analizza la cultura di cui quegli operai erano portatori allorché giunsero in Germania, e i conflitti che di conseguenza si generarono nel loro rapporto con il mondo così diverso che colà li circondava; ciò è reso possibile dal fatto che Bermani ha raccolto racconti e memorie di quegli emigranti, costruendo in tal modo in anni di lavoro un fondo documentario composto prevalentemente di fonti orali da cui balzano in primo piano le autorappresentazioni, le stereotipizzazioni, i ricordi.

La ricerca si è avviata nell'ambito di un progetto sviluppato dalla Hamburger Stiftung für Sozialgeschichte des XX. Jahrhunderts ("Fondazione amburghese per la storia sociale del secolo Ventesimo") tra gli anni 1987 e 1990. Del gruppo di ricerca facevano parte Cesare Bermani, Sergio Bologna e Brunello Mantelli. I testi erano pronti per l'edizione tedesca già nel 1990, ma sono rimasti a lungo inediti a causa dei tempi necessari alla traduzione e - più che altro - della difficoltà a trovare un editore interessato, disponibile e adatto a garantire un'adeguata diffusione. Solo nel 1997 il volume ha visto la luce per i tipi del nuovo Akademie Verlag. Quello ora pubblicato da Bollati Boringhieri è il contributo di Bermani in lingua originale (ma in una versione assai estesa).

La metodologia di Bermani, descritta nel capitolo introduttivo, si fonda sulla ricerca intensiva dei testimoni, su interviste in profondità e sull'attenta trascrizione dei nastri così raccolti. Il volume, di lettura assai gradevole, è suddiviso in ventinove capitoli di varia lunghezza, ciascuno dei quali si occupa di un tema specifico e potrebbe essere letto in modo autonomo dagli altri. Tutti sono basati su di un nucleo di citazioni e testimonianze, che contribuiscono a rafforzare l'impressione di vivacità e freschezza dell'esposizione. Molte delle testimonianze sono avvincenti, anche se sottolineano quasi soltanto le difficoltà della vita in Germania: i conflitti sul luogo di lavoro, il disagio provocato dagli inusuali cibi tedeschi, i bombardamenti, la distanza da casa, la perdita dei legami familiari e locali.

Il vero tema centrale del volume è costituito dall'esame delle condizioni di vita di questi lavoratori emigrati prima dell'8 settembre 1943. Nel periodo in cui l'Italia fu occupata dalla Wehrmacht, dal settembre 1943 all'aprile 1945, le condizioni della maggioranza degli italiani che si trovavano a lavorare in Germania mutarono significativamente; a prescindere dai militari fatti prigionieri l'8 settembre - i cosiddetti Internati Militari Italiani (Imi), che furono quasi tutti obbligati a lavorare per i loro carcerieri -, ai circa 120.000 operai italiani che erano giunti prima del collasso dell'Italia monarchico-fascista fu proibito il rimpatrio. In pratica furono trasformati in lavoratori coatti.

Alla situazione dei lavoratori italiani in Germania dopo l'8 settembre 1943 Bermani dedica solo uno schizzo: negli ultimi due rapidi capitoli dell'opera l'autore descrive l'odissea di tre giovani donne che alla metà del 1944 emigrano nel Reich dall'Italia del Nord (esse fanno parte del gruppo relativamente esiguo di lavoratori che anche dopo il crollo del regime monarchico-fascista vengono reclutati in Italia sulla base di un regolare contratto di lavoro), e la vicenda commovente di un giovane italiano che nel 1944 vaga per la Germania distrutta cercando di procurarsi il necessario per vivere entrando nelle case abbandonate e saccheggiandole. Verrà infine arrestato, condannato a morte e impiccato.

Colpisce come dal materiale documentario raccolto da Bermani manchi la dimensione della solidarietà, a cui i testimoni interrogati non fanno cenno (un'eccezione è però rappresentata dallo sciopero messo in atto nel 1942 dai lavoratori italiani assunti dalla Krupp di Essen). Spicca invece in molti brani delle interviste la soggettività specifica e individualistica di una massa eterogenea di emigrati, che spesso si contrappone tanto alla piccola oligarchia di funzionari italiani che gestiscono i campi dove i lavoratori sono alloggiati quanto alle aspettative che vengono rivolte da parte tedesca nei loro confronti.

L'autore concede volentieri la parola alle proprie fonti, e ci restituisce perciò quadri intrisi di soggettività che sono in grado di allargare in misura significativa l'immagine che del fenomeno si aveva in precedenza, fondata com'era essenzialmente su materiali di provenienza statale o su carte delle strutture imprenditoriali ed economiche. Un approccio di tal genere alle fonti non è però esente da problemi, e appare fondato su una sorta di prospettiva idealmente "umanistica": Bermani fa parlare i protagonisti, i soggetti storici più "autentici", non obietta loro nulla, non mette in discussione i loro racconti, dà fiducia alle loro narrazioni. Ma a chi dobbiamo credere? Al sacerdote che fu attivo in Slesia e che racconta le sue esperienze a distanza di quarant'anni? A Dino Alfieri, le cui memorie furono scritte allo scopo di giustificare il proprio operato e di dare di sé un'immagine positiva? Oppure alle fonti di polizia, che vengono utilizzate per allargare il discorso e che ci restituiscono l'immagine di un mondo dell'emigrazione che è in gran parte racchiuso in confini sociali assai ristretti, e che si snoda in una quotidianità fatta di vita negli alloggiamenti, di cibo sgradevole, di abitudini incomprensibili, di quotidiani soprusi e di continua corruzione? Una quotidianità punteggiata anche di arte di arrangiarsi, di mercato nero e di traffici semilegali, di rotture del contratto di lavoro, di passaggio - illegale - da un lavoro all'altro, nonché di rimpatri coatti sotto la sorveglianza della polizia. Che immagine dobbiamo noi trattenere di tutto ciò?

Infine, troviamo frammenti di contestualizzazioni, di valutazioni, di prese di posizione. A questa categoria appartengono il paternalismo nazionalista di Dino Alfieri, per il quale gli emigrati rappresentano un potenziale da utilizzare a maggior gloria dello Stato fascista; la posizione impegnata in senso umanitario di Giovanni Pirelli, che intraprende un'offensiva contro le strutture fasciste e tedesche che gestivano gli emigrati con slancio giovanile e un riflesso non privo di importanza sulla propria famiglia d'origine (che si possa parlare di presa di coscienza a me pare discutibile); le lettere indirizzate da alcuni lavoratori alla propria moglie e alle proprie famiglie rimaste in patria, dove si esprimono dubbi, anche se ovviamente senza potersi esprimere con la necessaria chiarezza.

Oltre a ciò vengono messi in rilievo anche alcuni aspetti finora quasi del tutto sconosciuti della vicenda, per esempio nel capitolo su donne tedesche e lavoratori italiani. Giudicati criticamente dai tedeschi, oggetto di pregiudizio e discriminati, prima dell'8 settembre gli italiani nella Germania nazista appartengono nonostante tutto a un gruppo relativamente privilegiato di lavoratori, se si paragona la loro situazione a quella dei lavoratori stranieri di altre nazionalità. Che una condizione del genere, caratterizzata da una possibilità di muoversi relativamente ampia e da una certa libertà d'azione, potesse costituire un vantaggio, per esempio nei rapporti con donne russe o polacche, emerge con chiarezza in molti luoghi del volume. Diventa così sempre più evidente la complessità della situazione, come ad esempio quando il lettore apprende che i lavoratori tedeschi rimproveravano ai loro "camerati" italiani (che spesso erano pagati a cottimo) di tenere sul posto di lavoro un ritmo troppo rapido, "fascista", e li invitavano a prendersela con un po' più di calma.

L'esposizione di Bermani estende comunque significativamente le nostre conoscenze sulle condizioni di vita e la quotidianità dei lavoratori emigrati nel Reich. Un ulteriore suo pregio è il fatto di metterci in guardia dall'emettere valutazioni troppo affrettate, invitandoci a tener conto del ventaglio estesissimo di situazioni locali in cui i lavoratori italiani finirono col trovarsi tra il 1938 e il 1943.

 

Henry Ashby Turner jr., I trenta giorni di Hitler. Come il nazismo arrivò al potere, trad. dall'inglese di Andrea Buzzi, Mondadori, Milano 1997, pp. 256, Lit 32.000.

Yehuda Bauer, Ebrei in vendita? Le trattative segrete fra nazisti ed ebrei 1933-1945, trad. dall'inglese di Massimo Parizzi, Mondadori, Milano 1998, pp. 370, Lit 33.000.

Mario A.Cattaneo, Terrorismo e arbitrio.Il problema giuridico nel totalitarismo, Cedam, Padova 1998, pp.316, Lit 39.000.

Andrea D'Onofrio, Ruralismo e storia nel Terzo Reich, Liguori, Napoli 1997, pp. 344, Lit 30.000.

Luigi Fenizi, Il secolo crudele.Dialoghi sulla violenza di massa nel Novecento, Bardi, Roma 1999, pp.372, Lit 35.000.

Joachim Fest, Obiettivo Hitler, trad. dal tedesco di Umberto Gandini, Garzanti, Milano 1999 (1a ed. 1996), pp. 392, Lit 22.000.

Raul Hilberg, La distruzione degli ebrei d'Europa, 2 voll., trad. dall'inglese di Frediano Sessi e Giuliana Guastalla, Einaudi, Torino 1999 (1a ed. 1995), pp. 1480, Lit 40.000.

Ian Kershaw, Il "mito di Hitler". Immagine e realtà nel Terzo Reich, trad. dall'inglese di Valeria Russo, Bollati Boringhieri, Torino 1998, pp. 332, Lit 60.000.

Guido Knopp, Tutti gli uomini di Hitler, trad. dal tedesco di Umberto Gandini, Corbaccio, Milano 1999, pp. 396, Lit 34.000.

John Lukacs, Dossier Hitler, trad. dall'inglese di Giovanni Ferrara degli Uberti, Longanesi, Milano 1998, pp. 414, Lit 38.000.

Gianni Moriani, Il secolo dell'odio.Conflitti razziali e di classe nel Novecento, Marsilio, Venezia 1999, pp.262, Lit 25.000.

Detlev J.K. Peukert, La Repubblica di Weimar, trad. dal tedesco di Enzo Grillo, Bollati Boringhieri, Torino 1996, pp. 324, Lit 55.000.

Hermann Rauschning, Colloqui con Hitler, trad. dal tedesco di Anna Maria Baiocco, ed. orig. 1939, Tre editori, Roma 1996, pp. 272, Lit 28.000.

Stefano Trinchese, Roncalli e von Papen, Sei, Torino 1996, pp. 128, Lit 17.000.

Isabel Vincent, L'oro dell'Olocausto, trad. dall'inglese di Sergio Mancini e Gianna Lonza, Rizzoli, Milano 1997, pp. 342, Lit 30.000.

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