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Anno edizione: 2015
Anno edizione: 2014
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Si lascia continuamente sedurre dal bianco sfumato del silenzio per ritrovare la parola giusta, e con in sé il valore supremo della verità e dei suoi colori. Una delle sole guide autorevoli che riconosce è la gioia che sente montare dentro, per questa sua capacità di vivere in armonia con la natura: seppur lontano dalla sua terra natale e dal suo paese. La natura stessa diviene la sua casa. Qui (almeno), l’esule non ha difficoltà ad avvicinarsi “con la memoria” al suo là (Coreno Ausonio, il paese laziale dove è nato). Quel poeta – che faccio coincidere con Mariano Coreno – è un uomo che opera sottraendo, alla ricerca della forma più semplice, sedimentata e pura. Il silenzio stesso è forma. E la poesia, la sua poesia, è per lui un’arte vicina alla natura, nella quale il mondo riflettendovisi perde la sua vanità e si mostra estremamente bello e pieno di gioia. Ogni albero, ogni passero, ogni merlo, persino il ringhioso dingo... lo chiama colmandolo di felicità e voglia di vivere. La scelta delle parole, il breve giro dei versi usati per esprimere questo sentimento lo precipitano all’aria aperta, in un mondo libero che nessuna emozione negativa ha la forza di svilire: raccolto tutto nella conoscenza del suo sguardo. Un presupposto inevitabile, che diventa tratto specifico e risolutivo del suo stile, la sua ‘inventio’ più intima, è il piano molto alto del sentimento di apertura al mondo e di felicità, ma intendiamoci, sentito sapendo mantenere la medietà del suo stare al mondo, che lo vede “estremo principiante” di un lungo percorso umano e poetico. Nell’accogliere la ‘joie de vivre’, nel suo essere superiore all’accadere storico, del quale la sua voce non risente, nell’esplorare i legami nucleari tra micro- e macrocosmo la sua parola svela una armonia completa fra mente e mondo, un piano della lingua in cui tutto (alto e basso) coincide, al punto di porre la morte come evento possibile, ma concedendosi il beneficio del dubbio,senza inciampare in quel punto pericoloso.
Realismo, natura e sottile magia si aggregano di necessità alle parole trascelte per descrivere l’arte di Mariano Coreno. Si è parlato di poesia in forma di aforisma, di affinità nell’ispirazione con l’haiku giapponese (di Bashô, Issa o Shirô), di quella capacità di tradurre una percezione o un sentimento in una espressione proverbiale, paragonabile, per rimanere in area orientale, al brevissimo ‘mijika uta’, una tanka sino-giapponese dalla quale anche il più noto haiku ha preso avvio. A monte troviamo dunque una estrema semplificazione del verso, scarno nelle parole, un’evidenza conferitagli dalla plasticità del linguaggio appaiata alla chiarezza del pensiero e a un senso vivo di poesia. Ciò presuppone uno strenuo lavoro su di sé e sulla forma linguistica risultante, che è appunto sobria, semplice e soffusa di candore: contraddistinta da un fuggente azzurro di luce. A prima vista, queste poesie di pochi versi hanno un effetto impensato, e cioè di sgomberare il campo visivo-mentale dalle molteplici e anomale presenze in veste di informazioni, programmi televisivi, pubblicità, del martellare quotidiano dei notiziari – quella “svariante tritura in cui è dato oggi di percepire” (Luzi) la realtà –, per ricreare innocentemente un albore vuoto, uno sfumato permanere presso di sé. Uno svuotamento che genera assenza, e ci fa essere essenziali. E il segreto di questa visione poetica sembra proprio quello di tornare a essere lapidari, di ambire a tanto attraverso il poco, come se ogni parola in più costasse denaro sonante e sconfinasse in una di quelle verbose delucidazioni così lontane dalla poesia. Difatti il tacere, con la sua austerità diritta, chiara, come sa chi scrive versi, “possiede un’eloquenza ben superiore a quella del dire” (Sergio Givone). Il poeta per lo più è colui che per formazione e ‘animus’ se ne sta in silenzio, in un silenzio curioso, muovendosi con candore e stupefazione ma non lasciandosi sfuggire il senso profondo e le turbolenze della vita.
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