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recensione di Cavazza, S., L'Indice 1995, n. 1
L'"Alfabeto cristiano" è l'opera più nota di Juan de Valdés. Scritta in spagnolo a Napoli nel 1536, sotto forma di dialogo con Giulia Gonzaga, venne pubblicata a Venezia nel 1545 nella traduzione italiana di Marcantonio Magno, senza il nome dell'autore, ormai scomparso. La versione fu ristampala altre due volte nel 1546, mentre si perdevano le tracce dell'originale spagnolo. Divenuto rarissimo, a causa della condanna ecclesiastica, il libro fu ritrovato e rimesso in circolazione a Londra nel 1861; altre edizioni procurarono Benedetto Croce nel 1938 e nel 1988 Adriano Prosperi. Questa di Firpo è la prima che si attenga alla stampa del 1545 e comprende, accanto all'opera maggiore, altri brevi scritti di Valdés pressoché contemporanei: il catechismo "Qual maniera si devrebbe tenere a informare insino dalla fanciullezza i figliuoli de christiani"; tredici" Dimande et risposte", nove delle quali inedite, e il conciso discorso "Della predestinazione", anch'esso finora sconosciuto. Va seguito che i testi inediti provengono dalle carte processuali conservate nella Stanza storica dell'archivio dell'ex Sant'Uffizio romano e che sono stati trasmessi al curatore da Dario Marcatto, uno dei "pochi eletti" ai quali le autorità vaticane hanno consentito la consultazione di questi documenti, evidentemente preclusi allo stesso Firpo.
La fortuna editoriale antica e moderna dell'opera è giustificata dalla sua altissima qualità. Lo scritto, sotto forma di dialogo tra Valdés e Giulia Gonzaga, è condotto in modo pacato, senza asprezze dottrinali o spunti polemici, in apparenza badando più ai problemi concreti dell'anima che alla riflessione teologica. L'autore stesso presenta la sua opera come una sorta di abbecedario, "il latte della dottrina delli principianti", primo passo per imparare "i principii della perfettione christiana". Eppure dietro alla semplicità colloquiale lo scritto rivela una struttura rigorosa, sorretta da precisi riferimenti scritturali. Giulia Gonzaga aspira alla perfezione spirituale, ma allo stesso tempo si sente legata agli affetti propri di questo mondo: da questo contrasto hanno origine "confusione, dubbio et perplessità". Valdés indica pacatamente la via per superare questi turbamenti: bisogna seguire la via della perfezione cristiana, abbandonando le cose terrene e caduche per quelle spirituali ed eterne. Quest'atteggiamento dov'essere mantenuto anche nei confronti delle opere di carità e delle pratiche esterne di devozione (la messa, l'orazione, i digiuni), che sono utili all'anima solo nel loro significato spirituale e in quanto ispirate da Dio.
A prima vista non siamo lontani dai temi consueti della trattatistica religiosa tardo-medievale, un collegamento che sembra (volutamente?) indicato da una menzione esplicita del "De imitatione Christi" di Thomas de Kempis e di altri testi ascetici tradizionali. Altrettanto evidenti, anche se non dichiarati, i prestiti dall'"Enchiridion* di Erasmo per quanto depurati da quasi tutti i riferimenti al mondo classico. In realtà l'opera va ben oltre questi termini di confronto quando pone al centro delle proprie argomentazioni la giustificazione per fede, con una definizione che non ammette incertezza: "Molto spirituale ha d'essere quello che ha da tenere la fede tanto viva quanto conviene per essere giustificato per quella". Facendo appello a questo presupposto Valdés può mostrarsi indulgente verso le pratiche di culto cattolico (come ascoltare la messa tutti i giorni, ma allo stesso tempo concludere il dialogo con l'esaltazione della libertà del cristiano, usando espressioni che ricordano da vicino quelle che Lutero stesso aveva posto in apertura del suo celebre trattato del 1520.
L'eterodossia dell'opera è messa compiutamente in evidenza dall'introduzione di Massimo Firpo, che in realtà è una vera e propria monografia su Valdés. Firpo ritrova le origini dell'esperienza valdesiana nell'alumbradismo spagnolo, un movimento religioso in parte precedente e autonomo rispetto alle posizioni luterane. Di questi ambienti Valdés, pur ricollegandosi anche ai temi tipici della Riforma europea, fece proprio il fondamento dell'illuminazione divina come centro della vita cristiana, superiore alla stessa lezione delle sacre scritture. Era una dottrina eminentemente spiritualistica e iniziatica, all'esposizione della quale Valdés dedicò migliaia di pagine durante il suo soggiorno napoletano (dal 1534 alla morte nel 1541), pur senza pubblicare una riga in tutti quegli anni, n‚ mostrare in alcun modo il suo dissenso dalla chiesa romana. Anche così tuttavia la sua influenza negli ambienti religiosi italiani fu vastissima, fino a raggiungere cardinali come Reginald Pole, molti vescovi, letterati, nobildonne come Vittoria Colonna e la Gonzaga. Secondo Firpo furono proprio gli autorevoli personaggi radunati intorno al Pole a decidere, intorno al 1545, di dare alle stampe alcuni testi valdesiani per condizionare il Concilio che allora si apriva a Trento. La loro sconfitta fu la fine di quel partito che voleva la riforma religiosa in Italia, senza però arrivare alla divisione confessionale e all'abolizione dell'autorità pontificia. È una tesi che certamente farà discutere: Firpo pone il movimento valdesiano al centro della Riforma in Italia, in uno stretto reticolo di personaggi che va dai prelati progressisti agli esponenti più radicali dell'anabattismo. Certamente l'Inquisizione fu dello stesso avviso, se perseguitò fino a tutti gli anni sessanta gli ultimi e appartati discepoli di Valdés come se costituissero ancora un pericolo per la chiesa romana.
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