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Vi ritrovo, aldilà della suggestione cromatica, o proprio grazie a questa, un fondo di smagato incanto, lo stesso eticamente sospeso sui versi di “Madre mia”: «Tremano le tue mani / madre mia / Mani sciupate da tanto lavoro / Mani aperte a disserrare pugni chiusi / Mani protese ad abbracciare e accogliere». La ripresa della parola “mani”, dando ad esse anche un senso visivo, quasi trasferisce, con una forbita epanalessi, l’immagine dal piano verbale a quello pittorico. Sono le stesse mani disegnate da Käthe Kollwitz, almeno così mi viene da immaginarle, mani amorose di madre, segnate dall’età e per questo più aperte all’amore disinteressato, con una disposizione più ostinata alla compassione. Anch’essa una compassione naturale, cioè più vera e genuina. Ed è con questa immagine particolarmente bella (in senso estetico non meno che etico), cui si guarda con occhio appassionato, che vorrei concludere.
Bagliore, e fino a riordinare in un tutto coerente e bello i “frammenti di disincanto”, le scàndole del disamore e asciugare le paure. La poesia sarà allora “parola da narrare”, che sfronda ogni ridondanza, un rinascere nell’atto o tocco lieve delle dita dell’amato, del quale, scriveva Schiller concludendo il suo libro sul Sublime, il percorso tragico contenuto nel destino fa un eroe o un dio sofferente. Ho qui il compito di parlare da lettore della poesia di Nadia Pascucci; bene, credo che rientri in questa stessa atmosfera, e la completi, la sua opera pittorica: nature silenti, ritratti, disegni a sanguigna, un espressivo acquerello che ha per soggetto un piccolo cane dallo sguardo sereno e buono, sono solo alcuni esempi che mi è stato possibile di vedere e riscontrare con la sua poesia. Ovunque, un colore accordato con il sentimento, che ha trovato una ben definita cifra stilistica, senza che diminuisca la sua capacità di narrare… poeticamente; che siano immagini o parole. Poesia e pittura appaiate nella loro genesi stessa, fin dalla loro formazione momenti di creatività insieme sintetici. Variazioni necessarie di un’unica musica. Inoltre, proprio per questa coincidenza di donna e poetessa, l’Io dell’autrice, benché in apparenza così presente, non si sovrappone alla libertà della sua opera, pur identificandosi con essa non esercita un deleterio effetto di oscuramento tanto comune fra gli artisti malati di narcisismo; e si deve ascrivere a suo merito la delicatezza con cui lei lascia vivere di una vita propria anche questi suoi dipinti figurativi di pregevole fattura.
Nel manoscritto autografo si vedono propriamente i due disegni. Un po’ rudimentali, ma efficaci per concettualizzare l’ideale bellezza attraverso la metafora dell’oscillazione di un’onda. E questa parola composta – «Wellenschwung» – compare nel magnifico verso d’apertura della poesia “Der Tanz” (1795), già nel primo abbozzo o versione. Il fluire dell’onda, il gioco d’acqua che impercettibilmente cambia senza interrompersi, come in una danza su piedi alati, un muovere ritmico di ombre fuggitive e libere dal peso del corpo, è l’effetto sul sentimento estetico di ciò che è libero, sul quale nulla e nessuno esercita violenza. È “silenzio che si fa poesia”. Un avvinghiarsi di steli di profumato papavero nel loro tenero reciproco sfioramento. L’opera d’arte come un fatto non solo di linguaggio; ma di stile dettato dall’intensificarsi del sentimento. E tanto rassomiglia alla vicenda di quell’anima poetica che Nadia Pascucci dipinge “vestita di semplice VITA” e “libera di esultare, di sentire, di essere”: “un IO precario” minacciato ‘in primis’ proprio da chi non sa amare, da chi ha desiderio di buio, figura antitetica questa non solo all’amore ma alla poesia (al suo inebriante sentore di Cantico dei Cantici). Nel suo sentimentale interesse verso la vita, la poetessa getta felice ponti in direzione di un rapporto con l’amato (“la mente che affascina”) che sia liberatorio, sublime spinta alla creazione poetica in attesa sempre di “nuova linfa” e di “lune nuove”. Smaniosa di primavere dai capelli ondulati e sciolti al vento, biondi come “spighe ondeggianti” nel profumo di zagare (si legge in “Arriverà”), carichi di futuro e di avvenire. Un arco di richieste e desideri a lungo accarezzati, detti o sussurrati, generati nel cuore come cristalli di neve che si sciolgono minimamente “in nudità e incastro perfetto” per poi compiersi, dicevo, in una metafora decisiva e netta: “capirai quanto accecante può essere la LUCE”.
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