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Affascinante la descrizione della Milano di una volta vista dagli occhi di un bambino, alcune descrizioni ( il mercato delle verdure, la vetrina dei guanti) sono pura poesia.
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Un bambino per mano di suo padre, un padre e un bambino che vivono un rapporto caldo, affettuoso e tenace. Il padre è un avvocato affermato e generoso, dotato di gaia espansività; ama la vita e desidera farla amare al figlio, verso il quale è protettivo come un grande albero. Il bambino, già provato nei primi anni della vita da un dolore la perdita della madre che lo turba nel profondo, è timido, intelligente, osservatore acuto dalla sensibilità pronta e riservata.
Ma c'è una terza "persona" a completare questo rapporto: non è la dolente figura della madre morta, che non assume contorni precisi nella memoria del bambino, e tanto meno l'affettuosa ma estranea figura della "mammina", la seconda moglie dell'avvocato, ma è colei che accoglie amorevolmente in sé e fa crescere il bambino. Questa "persona" è la sua città, cioè Milano.
Milano non è solo l'ambiente fatto di vie e di piazze, di quartieri e di facciate di chiese: è la protagonista di una formazione, protettrice complice dei segreti e delle scoperte dell'infanzia e dell'adolescenza, testimone silenziosa di pensieri e tristezze, dispensatrice di meraviglie, mai ostile, mai pericolosa: è la vera madre. In essa la vita sgorga dal Verziere, dove tre le bancarelle e le sorridenti venditrici si congiunge la dimensione privata della casa e degli affetti e quella pubblica del mercato, la dimensione naturale del cibo e quella più complessa delle relazioni sociali. Invece gli stupori e le scoperte del ragazzo ricevono un abbraccio affettuoso dalla "musicale" via Durini e dalla galleria De Cristoforis, allettante di novità, mentre il Naviglio, ancora scoperto, scorre come una linfa vitale nell'organismo della città, dove odori, colori, sapori si confondono a dare tono alla vita.
Con questi caratteri Milano appare all'occhio del bambino e con questo taglio prospettico è qui rappresentata con una mirabile lievità di scrittura. È l'"infanzia milanese" la protagonista e la voce narrante di questo racconto, che ci riporta pagina dopo pagina un mondo di persone, viste spesso di scorcio e disegnate con vividi particolari: persone anonime, come gli operai seduti sulla traversina del tram a consumare il loro pasto, o celebri come il medico filantropo dall'accogliente barba mosaica, o ancor più l'attore di grido e amico di famiglia, Ermete Zacconi, il cui duetto con intonazione emiliana con l'avvocato (la famiglia era originaria di Novellara) ha il tocco dell'affettuosa comicità, della gradevole ironia, tono che percorre quasi tutta la narrazione. Quasi, perché diverso è il taglio dell'ultimo capitolo: in esso il padre è assente, l'ambiente non è quello aperto della città e accogliente del mercato, ma quello stucchevole di polverosi salotti popolati da anziane signore. In esso il bambino, lasciato da parte, si "deve" perdere in fantasie prodotte da strani oggetti, su cui spira un'aria gozzaniana, fredda, di vita passata. Lo sguardo non è più quello dell'infanzia, ma dell'adulto che riflette e che sente "quante sono le assenze che si moltiplicano attorno a noi, o le dimenticanze di cui quotidianamente ci rendiamo colpevoli".
Il racconto milanese di Vigevani, che ci dona non un ricordo nostalgico di ciò che è morto, ma la memoria della vita, può alleggerirci, almeno in parte, da questa colpa, ora che su di noi, sulla storia e il calore di una città amata si è abbattuta la "Milano da bere"
Vincenzo Viola
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