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Finché è esistita in Italia una sinistra "storica" - composta, per intendersi, di socialisti e comunisti - su di essa ha aleggiato il fantasma di Bad Godesberg, e la si è accusata ad infinitum di aver troppo a lungo scansato, o di aver eluso sino all'ultimo, il bagno purificatore di un'irreversibile abiura dei suoi originari fondamenti ideologici. Ne è derivata la sensazione che buona parte del tragitto storico della sinistra italiana dopo la seconda guerra mondiale abbia rappresentato una "devianza" dalla via maestra imboccata dalla generalità dei socialismi europei. La ricerca di Favretto (studiosa di formazione italiana, ma intellettualmente maturata a contatto con ambienti accademici britannici) intende innanzitutto sfatare questa credenza, snodandosi attorno a due assunti principali: il primo è che la revisione teorica delle socialdemocrazie europee nel secondo dopoguerra non seguì un itinerario univoco, sicché non tutti i partiti socialisti attuarono una svolta così radicale rispetto alla tradizione come quella compiuta dalla socialdemocrazia tedesca nel 1959 al congresso di Bad Godesberg; il secondo è che per quanto riguarda il partito socialista italiano, in un particolare periodo della sua storia, tra la metà degli anni cinquanta e la fine dei sessanta, si stabilì un singolare parallelismo tra il suo itinerario teorico-politico e quello del Labour Party britannico, ad onta delle profonde diversità dei rispettivi contesti nazionali e delle esperienze storiche vissute sino a quel momento dai due partiti.
La base comune su cui si innestarono sia l'opzione dei socialisti italiani in favore di una politica di centrosinistra, sia gli indirizzi programmatici dei governi laburisti presieduti da Harold Wilson tra il 1964 e il 1970, fu costituita da ciò che Favretto definisce un revisionismo "tecnocratico", per distinguerlo dal revisionismo prevalentemente "redistributivo" o "keynesiano" che aveva cercato senza successo di egemonizzare il Labour durante gli anni cinquanta e che in Italia s'incarnava nel partito di Saragat. Caratterizzava il revisionismo tecnocratico l'accento posto sull'intervento economico pubblico (e qui stava la differenza rispetto a Bad Godesberg), giudicato essenziale per supplire alla debolezza delle spinte autopropulsive del capitalismo, per correggere le distorsioni dello sviluppo e avviare a soluzione gli specifici problemi che affliggevano le economie dei due paesi (sottosviluppo di intere regioni in entrambi i casi, declino e perdita di competitività internazionale nel caso particolare del Regno Unito): l'appello allo stato non derivava più, come nel socialismo della tradizione, da un postulato classista antiprivatistico, ma dalla convinzione che il mercato non poteva dare alla crescita economica lo slancio richiesto e che al suo interno non si producevano in misura adeguata le competenze necessarie a sorreggere lo sviluppo. Di qui la presentazione dell'intervento pubblico - nella forma di moderate nazionalizzazioni, ma soprattutto di partecipazioni statali e di programmazione - come creatore di efficienza e di modernità; di qui anche l'insistenza sulle potenzialità dello stato nel campo dell'istruzione, della promozione della ricerca scientifica e dello sviluppo della tecnologia.
Entrambe le esperienze di governo condussero però a risultati modesti, tanto da essere generalmente ricordate come "occasioni mancate". Molto efficace e non di rado originale nel tratteggiare i lineamenti dell'elaborazione che portò i socialisti italiani e i laburisti britannici a intraprendere, dopo una lunga astinenza e con spirito rinnovato, un'azione di governo, il libro appare frettoloso nella parte dedicata agli insuccessi e alle delusioni degli atti di governo. In questa parte, infatti, l'autrice si limita a riprendere e a sintetizzare i motivi più comuni della storiografia sull'argomento, laddove ci si poteva attendere qualche riflessione in più su quel che l'esperienza governativa rappresentò non solo come occasione di scontro con gli interessi minacciati dalla politica di programmazione o con le avversità della congiuntura, ma anche come banco di prova della concezione del rapporto fra poteri pubblici e processi economici precedentemente definita. Comunque il libro è da salutare con favore soprattutto per l'applicazione del metodo comparativo in un settore di studi spesso affetto da chiusure provinciali. Peccato solo che sia scritto in un italiano talvolta sgangherato e che l'autrice provochi continui brividi al lettore con i suoi spericolati costrutti grammaticali e sintattici.
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