Il libro è sempre anzitutto un manufatto, dove il testo è sempre inscritto in una cornice paratestuale altrettanto pensata. Se l'indice è l'ingresso principale, la copertina è in genere portatrice di un messaggio più suggestivo ma caduco, prontamente dimenticato una volta immersi nella lettura. La riproduzione a tutta pagina di un particolare della tempera su tavola raffigurante Francesco d'Assisi che predica agli uccelli, sul quale campeggia un titolo come Altissima povertà non dà adito a dubbi e avvisa il potenziale lettore che sta accostandosi a uno studio sul francescanesimo. La suggestione indotta dall'intreccio fra titolo e copertina è certamente vera, ma solo parzialmente. L'ultimo libro di Agamben parla sì di monachesimo francescano, ma come "caso esemplare", ovvero tentativo di "costruire una forma-di-vita, cioè una vita che si lega così strettamente alla sua forma, da risultarne inseparabile". Ciò che interessa primariamente l'autore è la relazione, a suo dire inedita, che si instaura fra azione umana e norma agli albori del monachesimo, quando, per la prima volta nella Christiana societas, i confini fra "vita" e "regola" diventano indistinguibili. In questo senso, espressioni come vita vel regula, regula et vita, regula vitae non possono essere rubricate come semplici endiadi, ma sono la spia di "un campo di tensioni storiche ed ermeneutiche, che esige un ripensamento di entrambi i concetti". La storia del monachesimo è plurisecolare, ma i secoli XII e XIII sono quelli dove si assisterebbe al suo culmine, quando irrompono sulla scena i movimenti spirituali (il francescanesimo, su tutti) e la pratica di vita guadagna il primato rispetto alla dottrina e alla legge. Le regole cenobitiche giunte sino a noi e relative ai primi tre secoli della storia del monachesimo occidentale (dalla fine del IV alla fine del VII secolo) sono una ventina, ma sulla loro effettiva applicazione e diffusione il dibattito è ancora aperto. La sola cosa certa è l'opera di uniformazione delle diverse condotte di vita monastica attraverso la cosiddetta Regola di Benedetto, datata alla prima metà del VI secolo. L'importante decisione si deve a Ludovico il Pio, il quale, durante il sinodo di Aquisgrana dell'817, grazie alla mediazione di Benedetto d'Aniane, fa obbligo a tutti i monasteri dell'impero di adottare la regola benedettina. Da quel momento, la regola monastica diventa veramente l'horologium della pratica di vita nel cenobio, paragonabile alla scansione del tempo liturgico in vigore negli uffici canonici. E sempre da quel momento si impone all'ordine del giorno il problema della natura giuridica delle regole monastiche e, di conseguenza, il rapporto fra il diritto del mondo secolare cristiano e quello che vige all'interno delle diverse congregationes monastiche. La natura di questo rapporto è centrale e costituisce l'interesse profondo del libro e, potremmo dire, dell'intera ricerca agambeniana. Sin dal suo esordio, l'articolato progetto di ricerca sull'homo sacer, la cui esistenza si colloca nello spazio, apparentemente anomico, che sta tra la vita e la morte, si è concentrato sul rapporto fra vita e legge; in Altissima povertà, e ancora nel volume conclusivo dedicato all'Opus Dei (Bollati Boringhieri, 2012), emerge un terzo elemento, la liturgia, già studiata in Il regno e la gloria, ma qui intesa non come la scansione del tempo e delle pratiche sacramentali per il mondo secolare, bensì come pratica liturgica ininterrotta, ovvero il nomos della vita monastica che si compie nello spazio dell'alterità rispetto alla società. Ciò che la chiesa compie regolarmente ma in modo intermittente nei riti, i monaci si prefiggono l'obiettivo di compierlo ininterrottamente sino alla fine della loro vita terrena. Ma per onorare tale impegno è necessario fissare questa pratica in una regola, in modo da poterne garantire l'insegnamento e la trasmissibilità. In questo modo, inoltre, si sancisce, una volta per tutte, la sacertà del monachus, la cui vita non può essere salvata secondo la poderosa macchina teologica dell'oikonomia cristiana. La religio del secolare non è la religio del monaco perché al primo mancano quei "doveri d'ufficio" stabiliti dalla regola, alla quale il monaco, in quanto tale, deve uniformarsi. Con il consueto evocativo linguaggio, Agamben riesce così a collocare questo tassello, apparentemente marginale, al centro della sua riflessione. Lo stato di eccezione in cui, a suo dire, è sprofondata, inconsapevolmente, la nostra tarda contemporaneità ha annullato i confini fra pura vita biologica e vita pubblica nella pólis, e nello spazio politico dell'Occidente vige ormai un intreccio fra queste due dimensioni, al punto che noi non percepiamo in alcun modo la differenza fra l'individuo come semplice vivente, che ha il suo luogo nella casa (oikos), e l'individuo come soggetto politico, che ha il suo luogo nella città. È il paradigma biopolitico della modernità già illustrato da Foucault. Ma di questo "regno dell'anomia", dove si sviluppano forme-di-vita altre, abbiamo testimonianze molteplici nel tempo e nello spazio. Il monachesimo è, per Agamben, una di queste. Lo "stato di eccezione" della vita monastica rispetto al mondo secolare o, se vogliamo, l'irriducibile alterità dell'oikonomia monastica, ha però una conseguenza destabilizzante: l'opus operatum sul quale si fonda l'efficacia dell'ufficio sacerdotale perde di significato. Se gli atti sacramentali compiuti da un sacerdote indegno non intaccano la loro efficacia, l'indegnità del monaco semplicemente non si può dare perché la forma-di-vita monastica non è un agire, più o meno eticamente corretto, ma un habitus "incarnato" e per questo non atto a essere dismesso. In questo modo, i due horologia liturgici divergono costantemente e la dialettica fra queste due pratiche di vita contraddistingue la costante tensione fra clero e monaci: "Allo sfumare della differenza corrisponderà la progressiva clericalizzazione dei monaci, mentre al suo accentuarsi corrisponderanno tensioni e conflitti fra gli ordini e la curia". Da questo punto di vista, il francescanesimo rappresenta un caso paradigmatico, dove l'invenzione di una nuova forma-di-vita monastica si fonda, nelle intenzioni di Francesco, sulla definizione giuridica del concetto di altissima paupertas, come "il tentativo di realizzare una vita e una prassi umane assolutamente al di fuori delle determinazioni del diritto". L'obiettivo è raggiunto dal francescano Pietro di Giovanni Olivi, il quale, distinguendo la proprietà dall'uso, rigetta la ricchezza, ma non l'usus che ne fanno i poveri monaci francescani. Per Agamben, si tratta di un tipico caso di applicazione del principio di abdicatio iuris, in virtù del quale Olivi pone la forma-di-vita francescana al di fuori del diritto, obliterando il rapporto giuridico fra individuo e cose che vige nel mondo secolare. Per lo storico, una tale lettura è senza dubbio stimolante e preserva dall'inconsapevole determinismo evoluzionistico sempre in agguato. Al contempo però, la vigilanza richiesta è perlomeno altrettanta, giacché la legittimità dell'exemplum francescano come paradigma delle molteplici forme di vita monastica che si sono date e si danno nel tempo presuppone la condivisione della postura metodologica dell'autore. Come precisa in Signatura rerum (2008), un raffinatissimo saggio sul metodo storico, il paradigma come forma di conoscenza rende intelligibili una serie di fenomeni la cui parentela sfugge all'occhio dello storico. Esso stabilisce la relazione fra passato e presente, ma non in senso cronologico: Agamben parla di relazione cairologica. È la genealogia di Foucault, lo strumento concettuale più immediato per scrivere la storia, quello che consente di risalire all'origine compiendo delle scelte. Significa, in altre parole, tracciare quella traiettoria che lega fra loro le forme del presente in questo caso le forme dell'esistenza monastica e che prova quanto l'ordine delle cose è relazionale e non sostanziale. Roberto Alciati
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