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Un libro a dir poco eccezionale, degno completamento della storia di Roma nel medioevo del Gregorovius, scritto con competenza, intelligenza e leggerezza di scrittura, grazie anche alla felice traduzione. Peccato per la relativa modestia della veste grafica. Avrebbe meritato un accurato apparato iconologico ed un maggior respiro tipografico. Ma i "bei libri", purtroppo, Einaudi non li stampa più.
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Dal 1143 al 1398 anche Roma, come tante altre città dell'Italia centro-settentrionale, fu governata da un regime comunale retto dall'assemblea di cittadini e con al vertice magistrati, prima locali poi anche forestieri. Durante questi due secoli e mezzo i pontefici risiedettero poco in città e non solo nei molti decenni del Trecento in cui la curia ebbe sede ad Avignone, ma anche in precedenza, quando spesso si videro costretti a preferire a Roma altri luoghi. Le vicende di questa "Roma senza papi" sono ora ripercorse in un'ampia sintesi che narra a un pubblico (anche) di non specialisti la storia economica, politica e culturale della città. Nella prima parte del volume è descritta dapprima l'organizzazione del territorio all'interno dell’enorme cinta muraria (le mura di Roma racchiudevano 1500 ettari, mentre quelle della grande Parigi di fine Trecento ne contenevano 439) nella quale risiedevano dalle trenta alle quarantamila persone e dove numerose famiglie dei ceti popolari possedevano orti e vigne. Proseguendo, nel capitolo Fuori le mura, l'autore ricostruisce le tappe attraverso cui, tra XII e XIII secolo, si formò e diffuse nella campagna romana una nuova struttura agraria: il casale. I casali erano aziende agricole di almeno cento ettari di superficie, fornite di torre difensiva e di altri edifici (la residenza del proprietario, stalle, magazzini ecc.) racchiusi in una cerchia muraria, dedite alla coltivazione del grano e possedute, di norma, da famiglie della nobiltà cittadina, capaci di investire grosse somme di denaro in queste loro attività.
I capitoli centrali sono dedicati alle vicende sociali e politiche. Si parla del popolo di Roma soffermandosi su artigiani (i cui prodotti di modesta qualità erano destinati al mercato locale), speziali, albergatori e mugnai, ma soprattutto su due categorie di commercianti-imprenditori, macellai e pescivendoli, capaci in taluni casi di accumulare importanti somme di denaro investite poi nell'allevamento e nella pesca. La nobiltà cittadina (la militia), formatasi al tempo della riforma gregoriana, quando i papi dovettero appoggiarsi a nuovi e dinamici gruppi per resistere alle pressioni dell'aristocrazia altomedievale dalle cui fila provenivano i pontefici dei secoli X e XI, nei secoli seguenti riuscì ad assimilare gli elementi più dinamici provenienti dai ceti popolari, organizzandosi nell'ars bobacteriorum (i bovattieri), una corporazione di proprietari di casali che non ha equivalenti fuori Roma. Quindi l’autore si sofferma su un'anomalia tutta romana, i baroni, descrivendo le caratteristiche di un piccolo gruppo di famiglie nobili soprattutto romane ma anche laziali (gli Orsini, i Colonna, o i Caetani parenti di Bonifacio VIII) che, grazie a rapporti di parentela con papi e cardinali, dal XIII accumulò fortune da favola e molto potere a Roma, nel Lazio e nelle regioni vicine. Infine, si ripercorrono le vicende di tre secoli del Comune romano che inizia quando un gruppo di cittadini, tutti riconducibili alla militia urbana, prende il controllo della città; prosegue con il cambiamento della metà del Duecento, quando i baroni prendono il controllo del Comune; e si conclude con i ripetuti tentativi attraverso i quali, nel corso del Trecento, il popolo alleato con i milites prova a difendere le istituzioni dal potere baronale (il più celebre di questi tentativi ebbe come protagonista Cola di Rienzo).
Nell’ultima parte del libro il grande quadro di storia cittadina si completa con il tema della storia della cultura. L'autore ricostruisce le caratteristiche architettoniche e artistiche della Roma medievale soffermandosi a più riprese sui modi attraverso cui si procedette al reimpiego dei monumenti della Roma antica. Mentre parla di sculture, mosaici (opera di esperti artigiani romani, i marmorari) e affreschi illustra l'aspetto medievale di quelle chiese e di quei palazzi pubblici e privati che, quando non sono andati distrutti, hanno subito modifiche spesso radicali. Chiudono il volume alcune pagine dedicate al fascino dell'antico: l'immagine della Roma pagana infatti conviveva negli schemi culturali del basso medioevo con la Roma cristiana dei papi e dei martiri, e almeno i rappresentanti di alcuni ceti cittadini (quelli da cui provenivano Cola e il suo anonimo biografo, ad esempio) conoscevano e utilizzavano anche in ambito politico il grande patrimonio culturale della Roma repubblicana e imperiale.
Per scrivere questo bel libro Maire Vigueur ha fatto ricorso all'esperienza accumulata in molti anni di studio delle fonti romane e ha potuto contare sulle acquisizioni di una tradizione di ricerca sulla storia della Roma bassomedievale ormai pluridecennale e molto solida, che tanto deve anche al suo insegnamento. Così il volume diventa pure una rassegna della medievistica romana dalla fine degli anni sessanta a oggi. Ma l'autore non si accontenta di fare il punto sugli studi e affida a questo nuovo libro anche i risultati di alcune sue ricerche ancora inedite, condotte sui quaderni delle imbreviature dei notai romani di fine Trecento e relative soprattutto a membri dei ceti popolari. La lettura di queste dense pagine mette in piena evidenza una divisione nell'esposizione molto più radicale di quella in capitoli. Visto che numerosi e importanti archivi sono andati perduti, per ricostruire la storia di Roma bassomedievale gli studiosi possono ricorrere a pochi documenti sino alla metà del Trecento, periodo in cui il panorama delle fonti inizia a comprendere anche i quaderni dei notai. Ecco quindi che, quando ripercorre le vicende dei secoli XII e XIII, l'autore può contare solo su scarse testimonianze, mentre per la seconda metà del Trecento ha abbondanza di informazioni. Di conseguenza ben poco sappiamo, ad esempio, dell'attività mercantile a larghissimo raggio che permise a Pierleoni e Frangipani di accumulare considerevoli ricchezze tra XI e XII secolo, oppure dei grandi mercanti che alle soglie del Duecento resero Roma una delle principali piazze commerciali d'Europa, mentre ci sono noti in dettaglio gli investimenti che negli anni sessanta del Trecento poterono compiere Lello e Andreozzo Gibelli, grazie ai guadagni ottenuti con la loro attività al mercato del pesce di Sant'Angelo in Pescheria.
Bisogna sottolineare come in questa ricostruzione della storia sociale e politica proposta da Maire Vigueur la minuta analisi dei dati conservati nei protocolli notarili funga da punto di partenza per illustrare il ruolo politico dei ceti popolari nella Roma del Trecento. In quelle che ci sembrano le pagine più interessanti del libro lo studioso mostra come artigiani e mercanti romani seppero organizzarsi per incidere sulla vita politica cittadina sia dando vita a corporazioni e confraternite, sia radunandosi in istituti di tipo territoriale espressione dei tredici rioni in cui era divisa la città. Costoro, che erano laboriosi, in numero considerevole e godevano di un buon tenore di vita, riuscirono a sostenere − sia pure per periodi di tempo mai molto lunghi − governi cittadini nei quali la breve durata delle cariche e il divieto di rielezione alla scadenza del mandato consentivano una larga partecipazione di cittadini alla vita politica attiva tramite l'esercizio delle magistrature, e dove allo strapotere baronale si contrapponevano i valori della giustizia e della pace interna.
Marino Zabbia
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