L'altro Occidente. Dall'Avana a Buenos Aires di Rino Genovese è un libro apparentemente semplice, a un primo sguardo: un uomo viaggia in un paese straniero, e da lì guarda indietro al luogo dove è nato e si è formato, dispiegando nella scrittura uno sguardo ubiquo (strabico, quando va male) che mette in relazione critica, storica e politica il luogo d'arrivo e quello d'origine. Cosa c'è di particolare? Ci vuole almeno un secondo sguardo, o comunque una lettura attenta e partecipe, per cogliere la doppia natura del volume. A cominciare dalla struttura: si tratta di un testo composto da due libri di viaggio (la formula reportage è imprecisa, per i motivi di cui si dirà) scritti in due periodi distinti: Cuba, falso diario (1993) e Tango italiano (1997), entrambi pubblicati da Bollati Boringhieri; indicazione significativa se si tiene conto del peso culturale di un editore come Giulio Bollati, verso il quale Genovese, come Moresco e tanti altri autori della casa editrice, mostra nella prefazionedel gennaio 2014 preposta al volume una stima profonda, appena allusa. Le date sono essenziali alla comprensione del testo: Cuba, falso diario, scritto subito dopo la caduta del muro di Berlino, si pone necessariamente come rielaborazione post eventum dell'esperienza comunista mondiale (e infatti, ricorda Genovese, fu stroncato o frainteso da parecchi intellettuali di sinistra italiani); Tango italiano, invece, è la rielaborazione romanzesca di un viaggio in Argentina in cui la riflessione politica sui desaparecidos si accompagna a un tentativo di comprensione della cultura latinoamericana, in particolare del concetto di "labirinto" di borgesiana memoria (insomma, Genovese sembra proporre una versione politica e polemica della "sfida al labirinto" teorizzata da Calvino). Un altro aspetto di doppiezza è dato dalla fisionomia duplice del libro. Da che l'intellettuale italiano ha iniziato a viaggiare con una certa frequenza e sistematicità, pressappoco a metà Novecento, abbiamo assistito a racconti di viaggio compiuti nelle terre più lontane, secondo approcci che vanno da un elegante disincanto ironico (Montale) a uno sguardo iperculturale e occidentalizzato sull'esotico (Parise e il Giappone), e si potrebbe continuare passando per Moravia, Pasolini e tantissimi altri. Eppure, L'altro Occidente non sembra esattamente un reportage, né un pezzo di giornalismo o di descrizione etnografica, distante perciò anche dai numerosi esperimenti di non fiction più recente. Ciò che marca la diversità dei viaggi raccontati da Genovese è proprio la posizione dell'autore-personaggio che racconta la storia, il suo perenne mettere in dubbio quello che ha vissuto, o dice di aver vissuto: in Cuba, falso diario c'è un sistema di annotazioni giornaliero che puzza a chiare lettere di artefatto e riscritto, con alcuni incontri che paiono essere apparizioni enigmatiche o fascinazioni esotiche; in Tango italiano una narrazione all'imperfetto dilata la scrittura in un'elastica allucinazione alla quale l'autore, rivivendo il viaggio nella scrittura, cerca d'imporre una scansione, senza per questo riuscire a dominare eventi schiaccianti come la dittatura militare in Argentina, o a reagire a un'Italia ammalata di furbizia e approssimazione. Se, in effetti, un aspetto si può mettere in risalto entro questo breve spazio, è proprio quello del personaggio Genovese. Apparentemente, un intellettuale in viaggio dovrebbe dominare l'ignoto con la sua capacità di comprensione, muoversi con saldezza per trovare "l'uscita del labirinto". Ma Genovese si muove per Cuba e Buenos Aires in preda a un perpetuo spaesamento psicofisico: l'abuso di Borghetti (liquore al caffè) in Tango italiano riflette alla lettera uno stato mentale di simultanea eccitazione e depressione. Il protagonista sbatte contro innumerevoli muri, dati da infortuni privati o da sconforti sulla politica, da crisi di valori e da delusioni amorose. La tensione erotica, che è la ricerca di un annullamento esotico acutamente di maniera in Cuba, falso diario e il suo contrario, cioè un'irrisolta tensione conoscitiva, è onnipresente nei due racconti, pur tanto diversi fra loro ma comuni nella rielaborazione fantastica (e, si potrebbe dire, allegorica?) di un soggiorno in America Latina. A proposito della reinvenzione finzionalizzante, e mistificatrice, di un'esperienza compiuta, Genovese ha potuto a distanza di quindici anni parlare per la sua opera di autofiction, confermando l'impressione che l'autofiction abbia carattere schiettamente empirico e vari a seconda degli esperimenti narrativi dell'autore che la usa, a prescindere da gabbie ideologiche e retoriche. Proprio sulla teoria vorrei chiudere. Genovese è un filosofo che ha riflettuto, dagli anni settanta in poi, sul magistero di Benjamin, Adorno e altri grandi filosofi del Novecento. Superficialmente, verrebbe da pensare che il possesso di tanta teoria potrebbe garantirgli sulla pagina un ragionevole bagaglio di certezze euristiche. Invece, è il contrario. Ne scaturisce un ennesimo doppio effetto: il libro di viaggio di un filosofo militante risulta una narrazione avvincente e capace di coinvolgere il lettore, senza appesantirlo con un saggismo ridondante, e in secondo luogo L'altro Occidente, con il suo illuminismo autocritico, induce a una riflessione lunga quanto un viaggio. Lorenzo Marchese
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