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recensione di Romero, F., L'Indice 1990, n. 2
Un libro scomodo, per il recensore. Perché il suo sforzo di concettualizzazione storica sembra a tratti illuminare la materia in maniera vivida e univoca ma poi lascia riaffiorare gli usuali contorni e colori di una realtà frammentata e intellettualmente irrisolta. Scomodo, quindi, perché insieme a riflessioni di inconsueta ampiezza suscita anche dissensi e perplessità, chiamando a un giudizio assai variegato.
Paggi propone "una nuova riflessione sul riformismo che dia definitivamente per scontata sia la vecchia (e perniciosa) utopia socialista di un superamento del mercato con mezzi puramente politici, sia la presunta equazione tra crescita economica e incremento dell'eguaglianza, che è stata tanta parte del mito americano" (p. XX). E lo fa con un lungo saggio su "Strategie politiche e modelli di società nel rapporto USA-Europa (1930-1950)", in cui ridiscute le molte ipotesi storiografiche e politico-economiche su americanizzazione e modernizzazione. (Accompagnano questo lavoro tre monografie di Sergio Lugaresi, Massimo D'Angelillo e Silvano Presa, che analizzano le difficoltà attuali delle socialdemocrazie di fronte all'economia aperta in tre casi nazionali: rispettivamente quello svedese, tedesco e austriaco).
L'assunto iniziale è che, una volta esaurito il modello di crescita postbellico dell'Europa occidentale (frenato dalla crisi petrolifera e poi soverchiato dal nuovo regime internazionale degli alti tassi d'interesse), si sia compiuta la crisi del riformismo socialdemocratico, travolto dalla liberalizzazione reaganiana del mercato globale. La retrospettiva storica è quindi mirata a ricostruire i percorsi che, attraverso tutto il Novecento, sembrano condurre inesorabilmente a tale sbocco. È proprio questo impianto caparbiamente finalistico che, a parer mio, inficia la solidità e, talora, anche la credibilità della ricostruzione storica. L'incedere dell'egemonia americana è visto come un'onda lunga scaturita negli anni venti, quando l'ampiezza del mercato interno avviò un trapasso 'epocale' dell'economia statunitense "da una logica di produzione a una logica di consumo" (p. 20). L'espansione dei consumi individuali assurge a motore dello sviluppo. In luogo della preoccupazione per la scarsezza delle risorse, il modello socio-culturale assume come proprio perno l'abbondanza, in un "mutamento morfologico" (p. 40) della società di massa espresso dalla teoria del marketing. Sarà la domanda a trainare la razionalizzazione della produzione, chiamata ad adattarsi costantemente ai mutevoli desideri del consumatore.
Con gli anni trenta e quaranta, il modello si afferma in patria, in risposta alla crisi, e proietta all'estero impulsi ritenuti alla lunga irresistibili. La prosperità americana spinge all'unificazione dinamica del mercato mondiale. Le funzioni dello stato nazionale si tingono d'anacronismo e parrebbero travolte. La società organizzata dalla politica intorno al governo pubblico dell'economia è sfidata dalla logica individualistica dei consumi, che dissolve le aggregazioni collettive e ridisegna le relazioni sociali e politiche secondo una "dimensione contrattualistica" (p. XVII) tipica del mercato. Al termine del viaggio c'è l'Inghilterra thatcheriana, vera apoteosi dell'americanismo, in cui i poteri del mercato sopraffanno quelli della mediazione politica: il riformismo subisce la sua sconfitta più profonda proprio dove - con il Welfare State laburista nato dall'austerità di guerra e dal nazionalismo keynesiano - esso si era più nettamente contrapposto all'influsso privatistico e liberista dell'americanismo. Nell'immediato dopoguerra il paradigma consumistico dell'abbondanza si affaccia in Europa, con un piano Marshall che è qui ridimensionato a semplice passaggio congiunturale di una spinta di lunga durata alla modernizzazione di segno americano. Ne risulta particolarmente esaltato l'impatto trasformativo di tale modello sulle architetture politico-sociali europee. Le tradizionali funzioni politico-militari dello stato nazionale si concentrano nelle mani delle due superpotenze, e le altre nazioni divengono trading-states finalizzati all'acquisizione di competitività sui mercati mondiali. Mentre il laburismo tenterà invano di resistere all'economia aperta dell'opulenza, l'autore indica nel riformismo tedesco e in quello 'export-led' della Svezia i due casi vincenti di governo consensuale e redistributivo della economia: proprio perché coniugano pieno impiego e presenza sul mercato mondiale, integrazione dei lavoratori e espansione consumistica, riformismo e americanismo. All'estremo opposto viene collocata l'Italia del riformismo mancato, dove la modernizzazione è disgiunta dal progresso sociale: liberalizzazione e immissione nel mercato mondiale van qui di pari passo con l'emarginazione del movimento operaio e la mancanza di una lungimirante strategia redistributiva.
Per quanto opinabile in vari passaggi, l'analisi è assai stimolante, in particolare sui diversi percorsi del riformismo. E l'idea chiave del consumo come cardine dell'americanismo e della internazionalizzazione dei mercati (in sé non nuova) arricchisce gli studi sui percorsi di modernizzazione economica tra Europa e America di un importante, rilevante dimensione antropologica. Ma il valore quasi trascendente affidato a tale idealtipo, la cui affermazione storica pare assoluta e ineluttabile, finisce per trasportarci in una dimensione metastorica, dove le incongruenze del reale si annebbiano, e le sue contraddizioni sono spesso violentate dall'imperativo della univocità concettuale. Così, ad esempio, la rivitalizzazione postbellica degli stati europei e l'estensione coordinata dei loro poteri di regolamentazione su scala continentale soccombono a un visione liberista dell'integrazione europea che ha poco di storico e risente troppo della mistica del 1992. Il declino dell'economia americana nella competizione mondiale, con il relativo insuccesso degli Stati Uniti come trading state, è poi sorprendentemente espunto dall'analisi. L'enfasi data al ruolo trainante del keynesismo militare come forma di spesa pubblica che non deprime ma, anzi, sostiene il consumo privato, sembra totalmente ignorare i suoi effetti alla lunga negativi per la concorrenzialità dell'intero apparato produttivo. Scompaiono cioè i lati perdenti o incompiuti del modello stesso: elementi insostituibili per una valutazione della sua rilevanza storica. Sono sintomatici, in proposito, sia il silenzio sull'esperienza francese (difficilmente comprimibile in una teoria sul deperimento dello stato nazionale), sia l'elevazione del thatcherismo a trionfo finale dell'americanismo: proprio mentre la crisi dell'economia inglese e il risorgente dilemma sulla sua collocazione internazionale ripropongono con forza i nodi irrisolti del ruolo dello stato e del momento politico. Sembrerebbe che l'idealtipo dell'americanismo si sia tramutato nelle mani dell'autore da categoria dell'analisi storiografica a travolgente principio riorganizzatore della storia stessa, secondo una visione certo influente nel mondo anglosassone degli anni Ottanta, ma viziata da un ideologismo marcatamente anti-storico.
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