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Anno edizione: 1992
Anno edizione: 2019
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BOWEN, ELIZABETH, Spettri del tempo di guerra, Theoria, 1991
BOWEN, ELIZABETH, La casa di Parigi, Essedue, 1991
BOWEN, ELIZABETH, Amici e amanti, La Tartaruga, 1992
recensione di Nadotti, A., L'Indice 1992, n. 7
Nei due romanzi e nei racconti di "Spettri del tempo di guerra", benissimo tradotti da Ottavio Fatica (ma alcuni erano già contenuti nella raccolta "È morta Mabelle", Essedue, 1986, che si segnalava anche per i bei saggi introduttivi di Maria Stella e Benedetta Bini, v. "L'indice" n. 9, 1987), torniamo a inoltrarci nel duplice territorio di Bowen - quello di pace e quello di guerra. Scritte in periodi diversi - nel 1931 "Amici e amanti", negli anni quaranta i racconti, nel 1959 "La casa a Parigi" - queste opere ci permettono di seguire l'evoluzione della scrittrice, la coerenza della sua ricerca, la capacità di sentire e descrivere un'atmosfera per allusioni, rimandi, cancellazioni. La rispettabile società inglese, donne eternamente bambine. 'vieilles dames indignes', uomini fragili e contraddittori, domestici perfettamente speculari ai propri datori di lavoro, si muovono in paesaggi comunque spettrali, siano essi quelli di una Londra allucinata sotto i bombardamenti del secondo conflitto mondiale, o quelli irrigiditi, paralizzati dalle convenzioni delle abitazioni borghesi prima e dopo la guerra. Creature incomplete che Bowen introduce sulla scena per dar spazio ai fantasmi che le accompagnano, che anzi esistono solo in quanto accompagnate da un fantasma. Fantasmi di antiche passioni, desideri taciuti, precarie trasgressioni in un universo sostanzialmente immobile, claustrofobico in cui le case, i giardini, gli oggetti sono più vivi, in qualche modo pervicacemente vitali, testimoni muti dell'inequivocabile non-presenza degli esseri umani, simboli minacciosi delle pieghe sconosciute dell'inconscio. Neppure la guerra riesce a far breccia, se non per un attimo, nella fitta coltre di edera che custodisce muri, ringhiere e memorie segrete, o a interrompere il battito puntuale dell'orologio a pendolo. Distaccata e imparziale Bowen osserva, registra assenze, vuoti, silenzi, fa muovere i suoi personaggi su un palcoscenico che è in realtà il vero attore, luogo di contenimento dei ricordi, delle paure e nevrosi di un'epoca e di una classe sociale. Virginia Woolf, Henry James e Katherine Mansfield sono chiamati in causa ogni volta che si parla di lei, quasi a sancirne l'autorevolezza nella tradizione modernista, ed è giusto farlo, eppure in Bowen c'è soprattutto Bowen e ne sono una prova quelle sue "Notes on Writing a Novel" (scritte nel 1945) e la straordinaria prefazione all'edizione americana dei racconti (assai opportunamente inclusa nel volume di Theoria), piccolo capolavoro oltre che testamento d'artista: "Passeggiando nell'oscurità della notte per sei anni si sviluppavano nuovi sensi nudi e vigili, con le loro osservazioni e i loro moniti selvaggi. Mentre di giorno si andavano continuamente rifacendo nuove mappe di un paesaggio sconvolto da qualche nuovo cambiamento... I pittori hanno dipinto, i fotografi che erano artisti hanno fotografato l'architettura, traballante come merletto, delle macerie, gli oscuri movimenti di massa delle genti, e il fulgore intempestivo dei cieli fiammeggianti. Io non so dipingere n‚ fotografare così: io ho isolato, ho perseguito il particolare, mettendo in luce volti o ritagliando gesti... Io sono così, così io sento, vuoi in tempo di guerra vuoi in tempo di pace; e solo come sono, e sento, io so scrivere". Che altro aggiungere, se non forse che nell'atmosfera allucinata della città in guerra sembra quasi che Bowen abbia avuto per compagno di strada un altro osservatore dotato, come lei, di un "senso acutissimo dell'anormale", Alfred Hitchcock. Nei romanzi successivi Bowen torna con la stessa "anormale lucidità" alle lacerazioni degli interni borghesi in tempo di pace, ai silenzi inspiegabili e alla conseguente duplicità delle memorie familiari. Con "La casa a Parigi" ci dà un inquietante e raffinatissimo romanzo di formazione, tutto giocato sui continui rimandi fra passato e presente, fra presenza e assenza, di cui sono protagonisti il bambino Leopold e la fanciulla Henrietta, che percepiscono la presenza l'uno dell'altra ancor prima di incotrarsi, tendendo l'orecchio al di là delle pareti che sono le pareti stesse dell'infanzia esclusa dai segreti del sesso e delle passioni amorose, esclusi dalle loro stesse origini, e poi si incontrano incerti sulla loro identità sulle ragioni del loro esser lì, in una casa estranea a entrambi che li riunisce temporaneamente solo in quanto simbolico spazio di attraversamento per accedere all'immaginario adulto. Bowen costruisce un intreccio che porta progressivamente alla scoperta della verità, alla separazione e a un nuovo sradicamento. Un "finale" cinematografico - simbolicamente situato in una stazione e "in cima a una rampa d'accesso" - che correttamente allude a un possibile inizio.
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