«Per me è davvero sempre più difficile, anzi inutile, scrivere in un inglese formale. E sempre più ho l'impressione che la mia lingua sia un velo che va strappato per arrivare alle cose (o al niente) che stanno dietro. Grammatica e stile! Mi sembrano diventati inconsistenti quanto un costume da bagno Biedermeier o l'imperturbabilità di un gentleman. Una maschera. Speriamo che per la lingua arrivi il momento, e grazie a Dio in certi ambienti è già arrivato, di essere usata meglio là dove se ne abusa in modo più efficace. Siccome non possiamo liquidarla di punto in bianco, non lasciamoci almeno sfuggire ciò che può contribuire al suo discredito. Scavarci dentro un buco dopo l'altro finché ciò che vi sta acquattato dietro, che sia qualcosa oppure niente, non comincia a filtrare - per lo scrittore di oggi non so immaginare un fine più alto.»
Samuel Beckett è stato a lungo conosciuto, e venerato, anche per la sua aura, dovuta all'aspetto fisico, all'inaccessibilità e al singolare dono per cui certe sue battute – scritte o recitate che fossero – entravano subito nella leggenda e nell'uso quotidiano. Ma soprattutto colpiva, intorno a lui, una zona di silenzio, che era in primo luogo una cifra stilistica. Così, di fronte alle sue lettere straripanti torna in mente il celeberrimo slogan inventato dai produttori di Ninotchka per la Garbo: Beckett parla! Sì, perché nelle sue lettere Beckett parla, moltissimo, e di tutto: del suo primo datore di lavoro, «Mr Joyce»; delle regioni più impervie della psiche, che esplorava con l’aiuto di Wilfred Bion; delle numerose lingue che abitava, e da cui spesso si sentiva posseduto; della miseria in cui era costretto a vivere; della stupefacente quantità di rifiuti editoriali accumulati dal suo primo romanzo, Murphy; e dei suoi viaggi in Europa, su cui spicca una straordinaria esplorazione della Germania di Hitler, in cui Beckett si addentra con il proposito di vedere quadri degli antichi maestri ma anche dei moderni, esattamente quelli che i nazisti, ritenendoli degenerati, avevano appena tolto dalla circolazione. A tratti, le pièce che il giovane viaggiatore avrebbe scritto dopo la guerra sembrano ispirate a fatti realmente accaduti e il «Fallire ancora, fallire meglio» appare qualcosa di più che un programma estetico. E, a libro chiuso, si ha la sensazione rara che, con Beckett, le sorprese siano appena cominciate.
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