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Quando e perché vivere insieme senza essere sposati diventò un peccato perseguito dalle autorità ecclesiastiche? A questo interrogativo risponde Giovanni Romeo ricostruendo la difficile esistenza di concubini, adulteri, teorici degli amori proibiti, di quanti insomma, nella Napoli della Controriforma (1563-56), vivendo una sessualità ritenuta disordinata, incapparono nelle reti tese dalla locale curia arcivescovile, che caso eccezionale deteneva anche competenze inquisitoriali.
In realtà, il concubinato fu a lungo tollerato dalla chiesa fino a quando, dopo la proibizione delle convivenze more uxorio per i laici al concilio lateranense V, nel 1514, il decreto Tametsi (1563), emanato durante il concilio di Trento, ridefinì il matrimonio cattolico imponendone la celebrazione alla presenza del parroco. Stabilì inoltre la procedura d'ufficio contro concubini e adulteri e pene diverse per uomini e donne, più gravi per queste ultime, che considerate le vere responsabili rischiavano l'espulsione dalla diocesi. La lotta ingaggiata dalle gerarchie ebbe un avvio piuttosto lento e, verso la fine del Cinquecento, il concubinato continuava a rappresentare una prassi diffusa tra i laici e pure presso il clero, malgrado i provvedimenti presi dalla chiesa in età medievale e l'imposizione del celibato ecclesiastico a Trento. A spiegare questa inazione contribuiscono fattori quali la carenza di uomini e mezzi e le controversie con lo stato, ma anche la tradizionale tolleranza verso varie forme di convivenza.
Se i primi mutamenti in direzione di un progressivo rigore si registrano all'inizio del Seicento, l'anno della svolta è individuato nel 1613, che coincide con la nomina a vicario generale, da parte del nuovo arcivescovo Decio Carafa, di Pietro Antonio Ghiberti. Significativo della sua severità è l'aumento del numero di coppie di conviventi indagate (343 nel biennio 1613-14, mentre nei quarantuno anni precedenti erano state soltanto 65). Ed eloquente, da allora, la durezza delle pene: ai cartelli infamanti si affiancarono via via multe, penitenze pubbliche e scomuniche, sino al carcere in caso di recidiva, con i corollari dell'esclusione dalla comunità e dell'impossibilità di accesso alla sepoltura cristiana. A essere colpiti furono uomini e, soprattutto, donne; laici ed ecclesiastici, benché verso questi ultimi si adottasse maggiore riservatezza allo scopo di difendere l'immagine del clero.
La battaglia contro conviventi e adulteri, amanti e teorici di una sessualità libera, conobbe stagioni alterne per allentarsi poi a partire dalla metà del Seicento, in linea con le vicende generali di tutti i tribunali inquisitoriali attivi nella penisola italiana. Quello che conta è il fatto che, dal 1626, sotto la guida dell'arcivescovo Francesco Boncompagni, la chiesa acquisì, nella prassi, il controllo definitivo sulle "coppie di fatto", trasformando in monopolio ecclesiastico quello che era stato considerato (e tale rimase sul piano formale) un caso di cosiddetto foro misto, sul quale, cioè, rivendicavano poteri le due giurisdizioni ecclesiastica e regia. Lo stato finì così per lasciare libera azione ai vertici della chiesa in nome del comune bisogno di governare una città turbolenta.
La guerra agli amori proibiti costituisce dunque un risvolto della Controriforma: fu il modo con cui la chiesa avocò a sé il controllo della sfera sessuale. Di quella fase storica l'autore, grazie tra l'altro a un accurato scavo presso l'Archivio storico diocesano di Napoli, non restituisce soltanto il progetto di riordino della sessualità, ma anche i risultati. E non per rivalutarne gli esiti positivi rispetto al processo di modernizzazione della società italiana (come sta facendo una parte della storiografia), ma per sottolineare che il volere delle gerarchie ecclesiastiche non sempre fu condiviso dal basso clero, spesso mosso da pietas, e che lo sforzo di governare amore e sessualità si scontrò con i desideri dei singoli individui, e con le loro resistenze, diffuse a diversi livelli sociali: dai ceti popolari, che si limitavano a stracciare i cartelli infamanti o a dichiarare che delle scomuniche, loro, se ne infischiavano, all'aristocrazia, che puntava al ricorso presso la Camera apostolica; dagli uomini alle donne, soprattutto, cui spetta il conio dell'espressione "scomuniche di fessa" a indicare con sprezzo simili provvedimenti.
Dal quadro qui delineato emerge una chiesa sostanzialmente sconfitta. Certo, un secolo dopo il concilio di Trento, a Napoli era più difficile vivere more uxorio. Tuttavia, malgrado la durezza degli interventi e il numero di coppie conviventi invitate a separarsi (tra le settemila e le diecimila in centocinquant'anni), laici ed ecclesiastici di una città "affollata e vivacissima" non smisero di difendere una morale sessuale in gran parte difforme da quella che i vertici ecclesiastici avrebbero voluto imporre. Resta da indagare quanto questo tratto sia stato tipico del mondo napoletano o quanto, invece, appartenga alla storia italiana. Patrizia Delpiano
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