Gianluca Briguglia ripercorre i momenti fondamentali del dibattito che nel tardo medioevo si sviluppò attorno ai temi della natura sociale e politica dell'essere umano, della convivenza, delle leggi che regolano la comunità. Interessato a mettere in evidenza le costanti di questa storia concettuale, Briguglia non ne marginalizza le varianti specifiche, le increspature e le ambiguità. Un saggio ricco in cui i quadri propriamente teorici la ricezione del pensiero politico di Aristotele, Cicerone e Agostino si alternano a sezioni dedicate a testi e problemi circoscritti: il dibattito sull'inquietante Nembrot, costruttore di Babele secondo l'esegesi patristica, e figura archetipica tanto del tiranno quanto del fondatore di civiltà; il complesso (e indubbiamente curioso) caso dei Pigmei, esseri considerati privi di ragione ma capaci di darsi una struttura sociale, di intraprendere guerre, di comunicare tramite un linguaggio che assomiglia a quello degli uomini. Il principio secondo cui l'uomo "è un animale politico per natura", sviluppato con particolare impegno nella Politica, non era in realtà ignoto al pensiero del XIII secolo: già Cicerone, fra gli altri, aveva consegnato al medioevo latino alcune pagine essenziali sul nesso che lega natura umana e politica. A Cicerone si deve soprattutto il mito di fondazione della società civile destinato a vasta fortuna, e che tuttavia si pone a qualche distanza dalla prospettiva delineata da Aristotele: narra Cicerone che la condizione selvatica in cui versavano gli esseri umani dell'inizio dei tempi (simili ad animali, vagavano "dispersi nei boschi e nei campi, senza che la ragione regolasse la loro vita") s'interruppe allorché un uomo grandioso e sapiente riuscì a convincerli a riunirsi e a darsi delle leggi. Secondo il racconto ciceroniano, l'eventuale compromissione di questo ordine implicherebbe quindi una regressione, un ritorno dell'umanità all'originario stato bestiale. Secondo il pensiero aristotelico, la rottura dei legami sociali produce invece una degenerazione: allontanandosi dalla vita associata, l'uomo tradisce la propria natura, finendo così per alienare sé stesso. Proprio questa conclusione, come non manca di segnalare Briguglia, apparve irricevibile a molti intellettuali del medioevo. "Chi non vive in società o è una bestia o è un dio", aveva scritto Aristotele nella Politica; ma tale principio non poteva che suonare troppo perentorio a chi era abituato a riconoscere "figure positive e straordinarie della solitudine" come gli eremiti, i quali rifuggivano i contatti con gli altri esseri umani senza porsi con ciò "a un livello imperfetto e inferiore alla vita sociale". La tranquillizzante antropologia aristotelica mal si conciliava anche con il cupo orizzonte esistenziale in cui l'umanità si trovò relegata dopo il peccato dei progenitori: un orizzonte che Agostino vide dominato da "una lotta potenziale permanente", da un continuo "bisogno di affermazione connesso alla violenza". Briguglia osserva che la posizione agostiniana produsse "un esito paradossale": se è la caduta a motivare l'esigenza di un governo che ponga freno alla cupidigia degli uomini, l'originaria negatività che marca gli istituti politici finisce per rivestirsi di una funzione positiva: senza di essi, non ci sarebbe infatti possibilità di convivenza. Eppure il realismo della caduta non chiuse i conti con il paradigma della naturalità politica. Riflettendo sulla condizione umana nell'Eden, Tommaso d'Aquino concluse che senza il peccato di Adamo gli uomini sarebbero stati nondimeno animali sociali e liberi, e proprio per questo bisognosi di un governo. Per altro verso, se nella prima metà del XIII secolo il retore Boncompagno da Signa lesse il mito di fondazione ciceroniano come una favola menzognera, che erroneamente riconduceva la nascita della società e dei suoi istituti giuridici all'azione di "cause onestissime" e "ragioni ottime" (quando invece all'origine del diritto era per Boncompagno la reazione a un anteriore stato di conflitto), è noto il fiducioso apprezzamento che il pensiero di Cicerone conobbe, una generazione più tardi, presso Brunetto Latini. Ma l'idea positiva della naturalità politica, l'immagine dell'uomo "compagnevole per natura", continueranno a subire l'assedio di racconti e tradizioni capaci di eroderne la solidità: non era Nembrot, come accennato, colui che diede avvio alla vita civile attraverso una violenta opera di conquista e sopraffazione? Non è anche la spontanea propensione alla guerra a rendere i Pigmei preoccupantemente simili agli esseri umani? I pensatori del medioevo, conclude Briguglia, compresero che la politicità e la socialità degli uomini "sono sempre insidiate dall'interno, cioè dalla natura stessa dell'uomo e dall'ambiguità di quella socialità che, pur rimanendo tale, oscilla in continuazione tra l'accordo e la violenza, la pace e la guerra, il bene comune e la tirannia". In ultima istanza: "la costruzione e la disgregazione". Luca Fiorentini
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