Nel panorama internazionale della scultura contemporanea, Anish Kapoor è senza ombra di dubbio uno dei principali punti di riferimento. L'artista anglo-indiano, nato nel 1954, ha ormai da lungo tempo assunto un ruolo di capofila, di maestro celebrato dalla critica e dai più grandi musei. La sua frequentazione dell'Italia è tutt'altro che occasionale: dopo la prima, tempestiva acquisizione di una sua opera giovanile da parte del Centro Pecci di Prato, Kapoor ottenne un premio alla Biennale di Venezia del 1990. Arrivarono poi le mostre a Napoli (dove ancora si aspetta la conclusione della sua fermata di metropolitana a Monte Sant'Angelo) e le opere pubbliche realizzate con l'Associazione Arte Continua a San Gimignano (2005) e con Arte Pollino a Latronico (2009). Il libro che accompagna la recente doppia mostra milanese (allestita alla Fabbrica del Vapore e alla Rotonda della Besana) va oltre il consueto catalogo, configurandosi come ricca antologia per immagini, che permette di seguire passo dopo passo le numerose tappe del lungo percorso di Kapoor. Un breve e chiaro testo dei due curatori, Gianni Mercurio e Demetrio Paparoni, introduce alcuni temi ricorrenti, primo fra tutti l'idea di "scultura come fatto interiore", come corpo aperto, in cui l'interno e l'esterno si equivalgono per importanza. Kapoor percorre questa strada in due modi: realizzando opere abitabili, oggetti di dimensioni monumentali che il visitatore può attraversare (è il caso di Dirty Corner, installata all'interno della Fabbrica del Vapore) ovvero creando dei vuoti reali o simulati nello spazio, oculi o quadrati di un nero purissimo che rompono l'unità della parete o del terreno. Su un altro fronte, Kapoor da sempre porta avanti un'acuta ricerca sul colore, inteso nei suoi termini essenziali: il pigmento, in polvere o impastato con cera, avvolge gli oggetti o invade brutalmente lo spazio (come in Svayambh del 2007). Il continuo avvicendarsi di pieni e di vuoti, la frantumazione di qualsiasi idea unitaria di spazio sono i cardini sui quali ruota il lavoro dell'artista, un lavoro capace di dialogare con la natura, con i monumenti del passato, con la più caotica organizzazione urbana. Una scultura fatta di vita, insomma, e di inganni della percezione. "Il mio compito è fare oggetti che scompaiono e oggetti che respirano", ha d'altro canto dichiarato lo stesso Kapoor. Mattia Patti
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