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Un racconto molto reale che fa riflettere e fa quasi scappare una lacrima di rimpianto nel finale. Se nel primo racconto l’egoismo la fa da padrone, qui è la paura a tenere banco. La scrittrice è riuscita a non far sapere il nome del nostro “non eroe” fino alla fine. Si sa quello del vicino, Joe, perché è lui a dirglielo, ma non gliene frega proprio niente di sapere quello del protagonista. Non si viene a sapere neanche alla fine quando, sull’orlo della trasformazione, ritrova la propria umanità e chissà forse un briciolo di coraggio per far scappare l’altro umano. In fondo, aveva le ore contate già alla fine del primo racconto. Non poteva esserci il classico “happy ending”, non avrebbe avuto senso in un racconto simile. Non ci sono quasi più esseri umani ergo niente cura. Chi resta sopravvive ma allo stesso tempo i Lazarus si stanno evolvendo. Goose ne è la prova. Ha immediatamente capito che il protagonista si sarebbe trasformato. Non è solo più istinto e ferocia. Quando lo ha salvato alla fine del primo racconto ha visto il morso, ha capito che sarebbe potuto diventare un alleato, parte di un futuro branco. È quindi un capobranco che sente un senso di appartenenza con i suoi simili, i meritevoli. E per lui il protagonista lo è, come non lo sono i Lazarus che li attaccano, con cui combatte e che si mangia. Per questa ragione lo teneva d’occhio, forse per notare sintomi di trasformazione e comunque è un comportamento che denota una certa intelligenza rispetto agli altri zombie, o molti altri zombie. E infatti, quando vengono attaccati dai Lazarus nel cascinale, il nostro “eroe” aiuta Goose. Forse per riconoscenza, tutto sommato lo ha salvato ben due volte e lo sta ancora difendendo, forse perché sente che si sta trasformando e inizia il senso di appartenenza alla nuova specie o, semplicemente, quel minimo di umanità che gli resta gli fa fare la cosa giusta. È singolare quanto si possa ritrovare la propria umanità proprio quando la si sta per perdere del tutto!
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