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1993
1 gennaio 1993
160 p.
9788872850367

Voce della critica


recensione di Bellofiore, R., L'Indice 1994, n. 1

È passato ormai un anno dalla svalutazione della lira, e dalla sua uscita dal Sistema monetario europeo. Pochi mesi prima, la forza della moneta italiana e la marcia verso l'unione monetaria europea sembravano dei dati di fatto definitivamente acquisiti. La discussione italiana, in particolare, era singolarmente monocorde. Mentre oltre le nostre frontiere la discussione sul trattato di Maastricht ferveva vivace, da noi era difficile che trovasse espressione un dissenso esplicito. Maastricht si presentava come il logico sbocco della politica della Banca d'Italia, tesa, a un tempo, a stimolare la ristrutturazione industriale tramite la politica del cambio forte e a legare le mani alla politica del bilancio facile grazie al rigore monetario. Governo e opposizione potevano quindi, insieme, rivendicarlo come un momento del necessario "risanamento".
Le certezze di ieri si sono frantumate nel giro di pochi mesi: la stessa discussione di politica economica ne ha guadagnato, facendo ricomparire, sia pur timidamente, diagnosi e proposte diverse. Aiuta a orientarsi questo libro di Lapo Berti e Andrea Fumagalli concepito prima della crisi e scritto nel mezzo della tempesta. Queste pagine contengono infatti tanto una ricostruzione ragionata della storia del processo rii unificazione europea e una critica interna del trattato di Maastricht quanto una disamina delle sue ricadute nazionali, lontane dall'idea che sia possibile "attribuire agli accordi di Maastricht la forza del dogma". L'analisi di Berti si appunta soprattutto sulla filosofia neoliberista e sull'impianto monetarista del trattato. L'obiettivo del sistema disegnato a Maastricht è la stabilità dei prezzi, da raggiungere mediante uno stretto controllo della creazione di credito e grazie alla riduzione dei disavanzi pubblici. Berti ricorda, a ragione, come al contrario spinte inflazionistiche siano strettamente connesse al processo di accumulazione del capitale, come una crescita selettiva del credito sia funzionale alla riallocazione delle risorse necessaria a dar vita ai nuovi investimenti, come dagli indici di convergenza di Maastricht sia assente la disoccupazione. Il rischio di una divaricazione dello sviluppo nelle diverse aree economiche interne all'Europa comunitaria richiede, inoltre, trasferimenti fiscali compensativi per far fronte agli squilibri. Questa lucida disamina dei limiti del trattato non conduce però Berti a indicare strade alternative, ed egli si limita a suggerire correttivi per il cammino verso l'unione monetaria che gli appare "passaggio" fondamentale verso un'Europa politicamente unita. Uno spazio decisionale europeo è condizione necessaria, ancorché non sufficiente, per controllare una competizione globale la quale, lasciata a se stessa, produce instabilità all'interno del mondo sviluppato, separandolo da un est e un sud cosegnati alla scarsità. Un po' più di Keynes (una riqualificata spesa pubblica) e un po' più di Schumpeter (una visione della moneta come "leva del nuovo") possono incrementare l'occupazione e gli investimenti. Un'"ampia partecipazione popolare" deve garantire che l'unione europea non cada dall'alto a vantaggio di pochi, ma si fondi invece su una conciliazione degli interessi dei più".
Andrea Fumagalli, dal canto suo, ci fornisce una discussione della "ratio capitalistica dell'accordo di Maastricht" per il nostro paese. Il trattato offre una giustificazione esterna a una politica antioperaia. Il vincolo all'aumento del tasso d'inflazione si traduce in una politica dei redditi mirante alla contrazione della quota relativa del reddito da lavoro dipendente. Il vincolo alla crescita del disavanzo e del debito pubblico sancisce una distribuzione del reddito che negli anni ottanta, grazie proprio alla spesa pubblica, si è volta sempre più a favore delle imprese.
La recessione dei premi anni novanta mette nuovamente in conflitto industria e finanza. Secondo Fumagalli, infatti, nel decennio trascorso la rendita finanziaria andava a sostenere il capitale industriale, e la stessa sua attività d'investimento, perché una quota non trascurabile dei titoli di stato era detenuta dagli imprenditori, che sarebbero stati così i primi beneficiari della crescita esponenziale degli interessi sul debito pubblico. La flessione nella crescita reale degli anni a noi più vicini rende però non più sostenibile l'esplosione degli oneri finanziari. L'uscita dall'impasse è possibile, prosegue Fumagalli, grazie al ricompattamento in corso tra profitto e rendita, attraverso le due strade della svendita ai privati di pezzi del settore pubblico e attraverso la riduzione dello stato sociale. In altri termini, è nuovamente la compressione della quota del salari a rendere compatibili le pretese antagonistiche del capitale finanziario e del capitale industriale.
Il lettore può facilmente rendersi conto, da questo breve riassunto, dell'interesse che presentano le analisi contenute nel libro. Pure, le considerazioni dei due autori si presentano non poco contraddittorie e danno luogo a conclusioni criticabili da più di un punto di vista.
Per quanto riguarda la contraddittorietà delle due parti di cui si compone il volume, mi limiterò a una notazione che potrebbe apparire meramente formale ma che, come vedremo, non lo è affatto. Il saggio di Berti si svolge tutto nei termini del linguaggio degli "interessi" e della loro "conciliazione", quello di Fumagalli, invece, impiega il vocabolario dell'analisi delle "classi" e dei loro "conflitto".
Berti, sul solido fondamento di una disamina storicamente agguerrita, è interessato soprattutto alle prospettive, e alle alternative che si prospettano come possibili; Fumagalli, invece, ha come obiettivo la critica, sulla base degli stessi dati ufficiali, delle politiche dei governi passati e presenti e del loro inequivocabile segno capitalistico. Vale la pena, per onestà, di mettere le carte sul tavolo, e di dichiarare subito che il recensore condivide con il secondo autore il riferimento non troppo mediato all'impianto concettuale marxiano, ma ritiene, con il primo autore, che la posta in gioco siano disegni e progetti politico-economici che vanno in qualche modo controllati (direi meglio, contrastati), e su cui non può bastare la controinformazione. D'altra parte, credo che la critica al trattato di Maastricht debba essere più radicale di quanto non appaia dallo scritto di Berti, a cui in gran parte saranno dedicate le osservazioni che seguono. Credo inoltre che le linee di un'alternativa programmatica vadano fondate sulla dinamica delle forze sociali più che su un illuminismo in fin dei conti tecnocratico la cui qualità di sinistra starebbe nell'attivazione del consenso di quell'entità per me misteriosa che è la "gente".
Torniamo dunque al trattato. Berti lo rappresenta come il figlio di una visione "monetarista" di stampo "germanico". È certo vero che Maastricht si iscrive sulla scia di una deregolamentazione dell'economia reale e di una liberalizzazione dei movimenti di capitale, e che assume a modello della banca centrale la Bundesbank. È altrettanto vero peraltro che il trattato, in contrasto con il monetarismo, opta per i cambi rigidamente fissi in vista della moneta unica (contro i cambi flessibili e, magari, la concorrenza tra monete), e per un "governo" della moneta "concertato" tra partner europei (suscitando perplessità fin troppo evidenti nei negoziatori tedeschi). In realtà, il trattato è una sintesi singolare tra una prospettiva dirigista sul terreno monetario - la moneta come il necessario presupposto istituzionale del mercato - e una prospettiva liberista sul terreno reale - la flessibilità nei mercato del lavoro e lo stato "minimo" come elementi essenziali per garantire l'efficacia della concorrenza imprenditoriale, e dunque la capacità di adattarsi con rapidità ed efficienza alla più agguerrita lotta sulle quote di mercato che proviene dal Pacifico e dal Nord America. L'esponente principale di questo modo di vedere è stata soprattutto la Francia, nel momento in cui ha voluto e potuto (grazie alla disinflazione competitiva e al franco forte) allearsi e tentare di condizionare il gigante tedesco.
Di questa prospettiva è possibile dare, ed è stata data, una versione di sinistra che condivide con Berti quella che mi sembra essere una scissione tra (autonomia della politica e della moneta) e (naturalità tecnica dell'economia,) nel supposto silenzio della lotta di classe (di parte operaia, beninteso). La moneta sarebbe l'elemento centrale di un quadro istituzionale che governa la violenza della deregolamentazione: nel breve periodo, la disciplina monetaria imporrà ai partner comunitari politiche fiscali correttive degli squilibri regionali; nel medio periodo, attraverso la flessibilizzazione dei mercati del lavoro, si determinerà un rapporto tra capitale e lavoro più omogeneo su scala continentale, e dunque un'articolazione degli interessi meglio organizzabile sindacalmente; nel lungo periodo, l'unione politica diverrà inevitabile. In quest'ottica l'itinerario suggerito da Berti alla conclusione del suo saggio una moneta unica contro l'antieuropa delle monete separate, strumento dell'integrazione economica e politica "corretto" dall'intervento congiunturale keynesiano e dallo stimolo selettivo del credito bancario schumpeteriano - viene raggiunto dall'interno stesso delle dinamiche innescate dal trattato.
Con più cogenza e con più coerenza, si deve dire. In Berti, infatti, gli strumenti keynesiani e schumpeteriani sono invocati dall'esterno, qualcosa di cui si lamenta illuministicamente la mancanza; qui la loro adozione è piuttosto l'esito delle forze concrete evocate dalla stessa moneta unica. È allora chiaro che se l'unione monetaria è una "buona idea" vale la pena di attuarla subito: la via "forte" dell'unione subito è l'unica ragionevole; la via "debole" dell'Europa a due velocità, con cambi fissi ma (più spesso) aggiustabili, è solo il ripiego del realismo; ma un realismo che dovrebbe sapere che non vi è ragione che impedisca alle due velocità di divergere, anzi. Lungi dall'essere una "semplice critica" a Maastricht, il percorso di Berti si rivela, insomma, una via un po' contorta (e alla fine illusoria) per cavalcare il dirigismo degli eurocrati. E il deficit di democrazia che viene rimproverato al trattato altro non è che la lontananza dai luoghi "regionali" che governano le scelte di bilancio e organizzano la crescita economica: governi, imprese e, forse, parlamenti. Una lontananza che rivela un problema di consenso e di partecipazione all'interno di un quadro dato; non indica i modi di un conflitto per andare altrove. Ma l'unione monetaria è davvero una "buona idea"? Nel ragionamento di Berti, l'unione dei mercati e delle monete in Europa è la risposta adeguata a un processo di globalizzazione dell'economia che richiede di essere governato. In realtà, l'internazionalizzazione dell'economia è proceduta a passo accelerato sul terreno dei movimenti di capitale, ma è invece rallentata, se non addirittura arretrata, su quello dei movimenti delle merci. Contro più di un luogo comune, va detto che l'economia di Bretton Woods e l'universo keynesiano erano più, non meno, coesi di quanto non sia oggi l'economia-mondo. Il dollaro come moneta mondiale e l'egemonia politica americana erano stati la condizione di uno sviluppo che aveva visto crescere a tassi sconosciuti il commercio mondiale, consentendo un'espansione cooperativa delle esportazioni. Un mondo dove era stato possibile stabilizzare le aspettative imprenditoriali, e quindi sostenere gli investimenti, aumentando al tempo stesso le spese sociali come quota di una torta in espansione.
Dalla fine degli anni sessanta, a seguito della competizione europea e giapponese nei confronti degli Usa, e a seguito del conflitto sociale scaturito dalla temporanea piena occupazione, l'economia internazionale è sempre più divenuta il luogo di una lotta non cooperativa per accrescere la propria quota in un mercato meno dinamico. Un luogo sempre più frantumato in blocchi commerciali di tipo protezionistico, dove il libero scambio all'interno si accompagna all'ergersi di possenti barriere esplicite o implicite verso l'esterno, e dove il commercio tra aree tende ad assomigliare sempre di più a un grande baratto gestito politicamente diverse strategie capitalistiche tengono il campo, tutte miranti alla flessibilità produttiva: chi muovendosi alla ricerca di un'accentuata elasticità del salario reale, e nominale (data la ridotta inflazione), alla congiuntura, e facendosi perciò fautore di una deregolazione dei mercati; chi puntando invece su politiche industriali attive e su una riqualificazione governata dell'apparato produttivo, e più sommessamente praticando un rinnovato sostegno dello stato all'accumulazione.
In questo quadro, l'unione monetaria europea si configura come la pretesa di costituire un "blocco" valutario adeguato a un'ormai compiuta integrazione economica, in grado di contrattare da posizioni di forza con il "blocco" americano e con quello asiatico; e come questi ultimi strutturato su una rigida articolazione dei poteri economici e politici al suo interno. Non avrebbe nulla a che vedere - neppure in potenza, come sembra suggerire Berti - con una rimessa in discussione della gerarchia tra paesi del centro e paesi della periferia; n‚, tanto meno, con il progetto di Banca mondiale di Keynes, che aspirava a istituire un'economia internazionale monetaria su basi simmetriche. È possibile che l'unione monetaria sia una buona idea, insomma: ma certo non per il sud e l'est del mondo.
Il progetto di un'area "regionale" europea disegnato a Maastricht aveva alcuni caratteri distintivi, al di là di quello che è scritto nei documenti: proprio le inevitabili disuguaglianze prodotte dall'unificazione monetaria di aree a diversa maturità economica avrebbero prodotto una ridislocazione della produzione manifatturiera più avanzata e tecnologicamente innovativa nelle aree forti; e avrebbero più o meno lentamente determinato un'accentuata flessibilità del salario nominale e delle condizioni di lavoro nelle aree deboli, solo a questo prezzo consentendovi la permanenza della produzione manifatturiera più tradizionale. Anche in questo caso, è possibile che l'unione monetaria sia una buona idea: ma certo non per i lavoratori salariati - per la loro busta paga, per il loro salario sociale, per la quantità e qualità della loro occupazione. Tanto meno per quelli delle aree non "centrali", come l'Italia. Non è questione di una via all'Europa unita che andrebbe "irrobustita da un'ampia partecipazione popolare": si tratta proprio di cambiare strada. Non semplicemente perché il capitale esce dai propri conflitti interni scaricandone i costi sul lavoro dipendente. La novità della fase attuale sta, come il recente accordo sul costo del lavoro mostra con chiarezza, nella spinta alla flessibilizzazione del salario nominale e di tutte le condizioni del lavoro, nella riarticolazione settoriale e geografica della produzione, cioè nell'imporre un salto strutturale nelle dinamiche del mercato del lavoro e della produzione. In una politica di sviluppo, sì, ma sempre più diseguale.
È dubbio peraltro che la moneta unica sia qualcosa che vedrà mai la luce. I problemi della transizione si sono rivelati, non a caso, insormontabili. Divergenze strutturali di produttività, con andamenti difformi dei prezzi e con cambi fissi, hanno comportato automaticamente aumenti dei tassi d'interesse e rivalutazioni reali per le regioni meno sviluppate, e quindi un peggioramento della loro competitività. I tagli alla spesa statale e l'aumento delle entrate nei paesi "non virtuosi" hanno aggravato la recessione, aggravando così i disavanzi. La stessa fissazione di date certe per l'unione si è tradotta in una fuga anticipata dalle valute che si riteneva non ce l'avrebbero fatta a entrare, o che avrebbero dovuto prima svalutare in modo consistente. Lungi dall'avvicinarli in un contesto di maggiore stabilità, Maastricht ha contribuito insomma ad allontanare i membri della comunità in un contesto sempre meno stabile.
Viene il sospetto che a contare non fosse l'obiettivo, comunque ormai fuori portata, ma il percorso recessivo, e dunque selettivo, che l'economia europea, checché ne sia di Maastricht, ha intrapreso. D'altronde, il compromesso incerto di cui è fatto il trattato tra il proposito (francese) di controllare nel più vasto ambito europeo il gigante germanico e la costruzione (tedesca) di una piccola area del marco si è rivelato quanto mai intempestivo, ed è subito saltato. Gli effetti dirompenti del crollo del socialismo reale a est non hanno soltanto messo in crisi il Sistema monetario europeo in conseguenza dei costi della riunificazione in Germania; hanno anche allargato i confini dell'area del marco, aperto un nuovo e vantaggioso mercato del lavoro, materializzato nuovi punti d'arrivo della delocalizzazione industriale.
Non è affatto detto, come scrive Berti, che "il processo di integrazione economica e monetaria dell'Europa proseguirà", mentre certo avanzerà la ristrutturazione su scala continentale e il divaricarsi degli andamenti reali delle diverse aree.
Esisteva un'altra strada. Si trattava, e si tratta, di rendersi conto che la convergenza reale è necessaria prima e indipendentemente dell'eventuale, e peraltro accessoria, e forse dannosa, unione monetaria, in un'Europa i cui confini sono in ogni caso da ridefinire. Stupisce in effetti che Berti, pur avendo in mano tutti gli strumenti teorici per imboccare questa strada, la eviti - più precisamente, come si è visto, ne faccia una glossa a margine del "monetarismo" di Maastricht. Il cambiamento strutturale presuppone una creazione selettiva del credito (non una contrazione dell'offerta di moneta), un'inflazione controllata (non un suo azzeramento), una spesa pubblica in disavanzo (non il mito della finanza sana), l'uso accurato dello strumento del cambio (non i cambi irrevocabilmente fissi). Tanto più quanto più un paese "insegue": sta qui il fondamento di un'effettiva convergenza. Tutto il contrario di quel che è scritto nel trattato. Una strada che presuppone politiche statuali "forti": della moneta, dell'industria, della spesa pubblica, del cambio, del controllo dei movimenti di capitali - conclusioni da cui Berti sembra rifuggire, attratto. dal fascino sottile del "nobile compito" del mercato e della legge della domanda e dell'offerta. Una strada inoltre che non esaurisce affatto una politica di sinistra: se ci si fermasse qui, si imboccherebbe, dignitosamente e magari democraticamente, l'altra variante capitalistica oggi sul tappeto. Una politica di "efficienza" di mercato significa infatti oggi, come tutti proclamano, produrre per l'esportazione: farsi dettare cioè la specializzazione produttiva dal mercato internazionale. E una politica di "sviluppo" significa, come tutti sperimentano, una riduzione del lavoro centrale e garantito. Più che di una "mobilitazione sociale, politica, culturale attorno all'idea d'Europa" - come recita la controcopertina del volume della Manifestolibri - vi è dunque bisogno di rimettere in discussione la divisione internazionale del lavoro, di proporsi una politica per la piena occupazione, di impostare finalmente su basi serie una critica dello sviluppo. Qualcosa di più concreto di un'idea; qualcosa che ciononostante può apparire, a ragione, del tutto utopistico. E lo rimarrà sinché la cultura e la politica della sinistra non porranno al centro l'esigenza di una generalizzazione e di un rafforzamento delle lotte operaie e sociali, di un movimento di massa, a livello sovranazionale - lotte che per l'intanto, localmente frammentate, conducono una loro vita carsica a cui si disinteressa la ricerca.
Il volume è introdotto da una bella introduzione di Sergio Bologna, che vi ripercorre la storia della ricerca dedicata alla moneta dalla rivista "Primo maggio", di cui Lapo Berti è stato parte fondamentale. Bologna ricorda come quella riflessione si costituisse, tra l'altro, sulla nozione di capitale come comando sul lavoro, su una lotta per la democrazia non delegata, e sulla convinzione che in Marx si trovassero strumenti interpretativi della realtà che ci sta intorno. Leggendo i saggi di questo volume, rappresentativi forse del meglio dell'attuale pensiero economico della sinistra - e divisi tra, da un lato, un marxismo tutto sommato ortodosso che ribadisce l'inevitabile subalternità del lavoro salariato, e, dall'altro lato, un'analisi eterodossa che, a partire da una visione della moneta come governo non di mercato dell'allocazione delle risorse, mette pur sempre capo all'idea che lo sviluppo è garantito dalla libera concorrenza imprenditoriale e che per autentica democrazia deve intendersi un'"ampia partecipazione popolare" della "gente" - vien da pensate, con una punta di rimpianto: altri tempi.
'Post scriptum': la recensione che precede è stata scritta a metà luglio. Quello che è successo solo un paio di settimane dopo sui mercati valutari, con il sostanziale esaurirsi dello Sme nella sua attuale configurazione, non fa, a me pare, che confermarne le tesi - la crisi del rapporto franco-tedesco, le contraddizioni insuperabili di Maastricht, il divaricarsi di un'Europa a due velocità, il volgersi della Germania all'Europa centro-orientale, la necessità di una convergenza reale prima dell'unione monetaria. Che le politiche recessive e gli alti tassi d'interesse non siano stati abbandonati nei mesi seguenti rende evidente la loro funzione di strumenti del "risanamento" produttivo e sociale, che nulla ha a che vedere con la costruzione di un'Europa unita.

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Andrea Fumagalli

1959, Milano

Andrea Fumagalli (Milano, 1959), economista, è docente presso le Università di Pavia e di Varese. I suoi interessi di ricerca sono prevalentemente relativi alla teoria macroeconomica, alla teorie monetarie eterodosse, all’economia dell’innovazione, alla distribuzione del reddito e alle mutazioni del capitalismo contemporaneo. Con Feltrinelli ha pubblicato Il lavoro autonomo di seconda generazione (1997).

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