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Antiche rime venete (XV e XVI secolo) - Marisa Milani - copertina
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Antiche rime venete (XV e XVI secolo)
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Antiche rime venete (XV e XVI secolo) - Marisa Milani - copertina
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Dettagli

1997
652 p.
9788886413206

Voce della critica


recensione di Guarino, R., L'Indice 1997, n.10

Nel 1894 si stampavano nella "Scelta di curiosità letterarie inedite e rare" delle edizioni Romagnoli Dall'Acqua gli "Antichi testi di letteratura pavana" curati da Emilio Lovarini. Con il linguaggio delle contemporanee inchieste positivistiche, la raccolta si proponeva come indagine "sulle preziose reliquie di alcuni generi popolari, e principalmente del teatro popolari". Le ricerche del Lovarini si concentrarono nei decenni successivi sulla figura del Ruzante, che della maturità di quel teatro era stato artefice. Ma intanto s'era individuata nella produzione letteraria pavana un'area linguistica, culturale, geografica che racchiudeva in una varia tipologia di fonti e forme l'associazione tra civiltà rurale e poesia dialettale. Il Novecento ha conosciuto visioni alterne della letteratura dialettale italiana, da Croce a Contini, dalla concezione della letteratura dialettale riflessa all'individuazione di una vena espressiva discontinua e inesauribile. Le concezioni unitarie serravano in sintesi estetiche e stilistiche l'indubbia rilevanza di una realtà policentrica, dove la specificità delle espressioni locali si organizzava secondo tradizioni autonome; e secondo l'impulso di soggetti e comunità determinate. "Antiche rime venete" di Marisa Milani ritorna, dopo più di cento anni, sui testi e sul campo dissodati dal Lovarini. E ci spiega quanto diverse sono le domande che oggi rivolgiamo a quella letteratura e ai profili in essa implicati. Si tratta di un compimento atteso da anni, dell'esito di un lungo lavoro di revisione testuale, spoglio dialettologico e ricognizione etnografica con cui la studiosa, docente di letteratura delle tradizioni popolari all'Università di Padova, ha rivitalizzato un filone di studi in cui si fondono umori locali e questioni universali.
A parte la revisione testuale, la nuova raccolta ricostruisce un'area più ampia e una tradizione di più lunga durata. I testi del Lovarini sono tutti riproposti ed emendati, salvo la versione mutila della "commedia senza titolo" di Ruzante poi nota ed edita integralmente come la "Betìa". L'area si estende dai testi veronesi e bergamaschi di Giorgio Sommariva - reintegrati ai sonetti pavani dello stesso autore - alle "scene contadinesche" dei sonetti di provenienza ferrarese, ai "mariazi" padovani che rimandavano al rito del matrimonio rurale e costituivano, con i contrasti, il lamento vedovile e il testamento, i nuclei recitativi degli spettacoli che mimavano la parlata e le posture dei villani del contado. Dopo le poesie politiche filoveneziane degli anni drammatici della guerra contro la lega di Cambrai, la produzione poetica in pavano viene seguita verso e oltre la metà del Cinquecento, nella nozione delle sue diramazioni ulteriori, presenti in territorio padovano e vicentino fino al XIX secolo.
Nei decenni e nei secoli muta il senso della figura parlante del villano, dell'uso e del valore della sua lingua. Muta con la fisionomia dei sodalizi letterari che difendevano in quell'idioma la misconosciuta e ostinata autonomia delle città venete dal dominio di Terraferma; e muta nel consumo di un linguaggio che le stampe propagano e fissano per i lettori veneziani. "Antiche rime venete" ricostruisce uno stato della letteratura che adotta e aggira le convenzioni della poesia rusticale e della satira antivillanesca. Si ricava la precisa e distinta percezione di un mondo e dei punti di vista di chi lo adottava come materia di scrittura e di ispirazione. Milani ha già messo a frutto in numerosi e approfonditi saggi il valore delle antiche rime come fonte sulla vita materiale dei contadini. In questi termini i testi pavani sono l'espressione parziale e vivida di un mondo altrimenti muto; e un caso di quella mobilità degli strumenti di comunicazione nelle società umane che la storia sociale degli ultimi decenni ha chiamato circolazione culturale.
Qui si rivive l'incontro tra la storia immobile dell'universo rurale, tra la "schiuma del mondo" nel cui segno si conclude la scabra disperazione dell'"Alfabeto dei villani", e lo sguardo di intellettuali in cerca di un'identità e di un idioma nell'epoca, tra la fine del Quattrocento e il primo Cinquecento, in cui si modellavano gli stampi dell'istituzione letteraria e una terra senza tempo si apriva nei sismi delle vicende belliche e dei rivolgimenti religiosi. L'assortimento dei testi e la stessa varietà del loro stato materiale, dai manoscritti delle raccolte cortigiane alle stampe di poche carte dei torchi veneziani, rispondono ai diversi scenari di quegli incontri. Le note ai testi li testimoniano. I sonetti del Sommariva furono trascritti negli anni sessanta del Quattrocento dall'antiquario Feliciano, compagno di gite archeologiche del Mantegna. Le scene ferraresi sono ricondotte alle voci clandestine dell'opposizione al regime estense. Nei decenni intorno alla metà del Cinquecento, e nei secoli di una lunga sopravvivenza, le accademie dei boari ripiegavano nel gergo provinciale di una subalternità disinnescata. Era trascorsa l'eccelsa parabola del teatro e della figura di Ruzante, autore di un'identificazione più profonda perché tempestiva e consapevole. "Segno dell'identità è il nome rustico che a partire dal Beolco tutti i pavani si diedero": così l'autrice nell'introduzione. Il prestito della lingua rustica e lo scarto dei costumi e dei valori erano diventati con Ruzante l'alimento di apparizioni eversive e di una drammaturgia della fame e della guerra. Oggi la ricerca paziente di Marisa Milani su una parlata di cui ci resta una letteratura, su una poesia dai volti segreti, e sulle maschere di una condizione collettiva, si ricompone anche nel segno della dedica al "pavante poeta" Giuliano Scabia.

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