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Prima trattazione monografica dedicata al celebre monumento funebre del duca Bernabò Visconti, oggi conservato nelle Civiche Raccolte d'Arte del Castello Sforzesco di Milano, il volume si distingue per il rigore scientifico e per il ricco e inedito apparato iconografico realizzato appositamente dopo un accurato intervento di spolveratura. L'arca è un'opera così ricca e carica di implicazioni da offrire uno spaccato della storia di Milano e della storia dell'arte lombarda alla metà del Trecento; a renderla così viva concorrono le coincidenze tra l'eccezionale personalità di Bernabò e la qualità di uno dei più alti scultori lombardi di estrazione campionese, Bonino da Campione. Dallo studio risultano chiari i tempi in cui l'arca fu eseguita e gli spostamenti che subì nei secoli, ma soprattutto si distinguono gli interventi eseguiti dallo stesso Bonino da Campione a quelli dovuti, invece, ai suoi collaboratori.
Volume cartonato con sovraccoperta editoriale figurata a colori, 200 pagine con 87 illustrazioni a colori e 10 in nero. Edizione realizzata da Silvana Editoriale per il Credito Artigiano. Opera in condizioni di nuovo / New book. SPEDIZIONE IN 24 ORE DALLA CONFERMA DELL'ORDINE..
"A san Johanni è la sua sepoltura. / È lavorata tucta d'oro intorno, / E sopra 'l capo la sua armatura, / Siccome portava quel barone adorno / ... D'oro e d'argento coperto è il barone / Sur un cavallo bello e meraviglioso, / E di fin oro sì porta sperone, / E par pur che sia vivo il valoroso". Nel suo Lamento funebre di Bernabò Visconti, Matteo da Milano si fa per noi testimone diretto, offrendoci una vibrante e puntuale descrizione di quello che doveva essere l'aspetto originario del monumento all'indomani della morte del signore di Milano; morte occorsa improvvisamente la notte del 18 dicembre 1385, quando Bernabò si trovava prigioniero del nipote Gian Galeazzo Visconti nella rocca di Trezzo d'Adda, forse per toxico dato in una scudella de fagioli, come narrano le cronache. Fu proprio Gian Galeazzo, per stornare da sé ogni sospetto, a tributare allo zio magnifiche esequie e un'onorevole sepoltura, nella stessa chiesa in cui già da più di vent'anni esisteva la sola statua equestre di Bernabò Visconti. Un monumento imponente, disposto su tre livelli (il basamento, la cassa sepolcrale e la statua equestre), finemente dorato e policromato, che incombeva con i suoi sei metri di altezza sull'altare maggiore della chiesa di S. Giovanni in Conca, adibita da Bernabò a mausoleo famigliare e ora distrutta. Vi rimase fino al 1571, quando fu relegato nella navata sinistra della chiesa, su indicazione dell'arcivescovo Carlo Borromeo, preoccupato che la collocazione a ridosso dell'altare potesse portare a sospetti di idolatria. Tra il 1813 e il 1814 fu poi trasferito a Brera, e nel 1898 al Castello Sforzesco, dove trovò la sua attuale ubicazione solo nel 1954.
Dall'analisi condotta da Graziano Alfredo Vergani in occasione del recente intervento di pulitura dell'arca di Bernabò Visconti, sono emerse importanti novità che gettano nuova luce sia sulle figure di tutto rilievo del committente (Bernabò) e dell'artista (Bonino da Campione), sia sulle vicende di costruzione e trasmissione del monumento nel corso del XIV secolo, oltre che sulla comprensione del significato originario dell'opera anche in rapporto alla tradizione iconografica della statua equestre e al valore glorificante ad essa connesso. In particolare, le numerose incongruenze strutturali e le disomogeneità stilistiche più volte riscontrate tra le varie parti del monumento hanno portato Vergani a concludere che l'arca sia stata realizzata in tempi brevissimi, utilizzando in parte pezzi appositamente preparati (come i lati brevi della cassa, i pilastri di sostegno e uno degli angeli), in parte elementi di recupero da altri monumenti (come i lati lunghi della cassa, le colonne di sostegno e il secondo angelo), oltre al gruppo equestre che, affiancato dalle personificazioni della Giustizia e della Fortezza, era già presente nella chiesa. Verosimilmente, la costruzione del monumento funebre fu avviata da Bonino da Campione su commissione dello stesso Bernabò, "forse in concomitanza con la morte della moglie Regina della Scala nell'aprile del 1384", interrotta durante la sua prigionia, infine ripresa e portata a conclusione tra il dicembre 1385 e il gennaio 1386, per volontà di Gian Galeazzo. A quest'ultimo si dovrebbe far risalire allora anche la decisione di un intervento sulla statua equestre, la cui scoperta costituisce una delle novità più salienti e suggestive proposte dal Vergani: il ritratto del condottiero, che fino alle spalle fu scolpito separatamente dal grande monolito, non appare essere quello originario. Una precedente versione, infatti, doveva presentare la testa del Bernabò celata sotto l'elmo sormontato dal cimiero, poiché alle insegne araldiche era affidata la possibilità di riconoscere il personaggio, come dimostra il ritrovamento del coietto (il cinturino destinato a trattenere in posizione l'elmo), il quale risulta inspiegabilmente interrotto proprio in corrispondenza della cesura tra il busto e il tronco. Indizi e conferme in questa direzione sono desumibili dalla stessa testimonianza di Matteo da Milano, oltre che dal confronto con le arche scaligere veronesi, e dall'osservazione di alcune miniature contenute nel lussuoso Guiron le Courtois della Bibliothèque Nationale di Parigi, realizzato verso il 1370-75 per volontà dello stesso Bernabò. In questo modo Gian Galeazzo riusciva a rendere più accettabile un'immagine che, anche per la sua provocatoria collocazione, "veniva fino a quel momento percepita come dichiarazione di guerra contro la Chiesa più che come un omaggio alla fede e alla devozione". Una sfida lanciata alla Curia pontificia, che lo aveva fatto oggetto di ben quattro bolle di scomunica, e davanti alla quale il signore di Milano esprimeva a chiare lettere il proprio punto di vista: "ritenersi e voler essere considerato æDominus ' e æDeus ' all'interno dei confini del suo dominio".
Prima trattazione monografica dedicata al celebre monumento funebre del duca Bernabò Visconti, oggi conservato nelle Civiche Raccolte d'Arte del Castello Sforzesco di Milano, il volume si distingue per il rigore scientifico e per il ricco e inedito apparato iconografico realizzato appositamente dopo un accurato intervento di spolveratura. L'arca è un'opera così ricca e carica di implicazioni da offrire uno spaccato della storia di Milano e della storia dell'arte lombarda alla metà del Trecento; a renderla così viva concorrono le coincidenze tra l'eccezionale personalità di Bernabò e la qualità di uno dei più alti scultori lombardi di estrazione campionese, Bonino da Campione. Dallo studio risultano chiari i tempi in cui l'arca fu eseguita e gli spostamenti che subì nei secoli, ma soprattutto si distinguono gli interventi eseguiti dallo stesso Bonino da Campione a quelli dovuti, invece, ai suoi collaboratori.
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