Nel medioevo la sepoltura di un santo non è mai soltanto una tomba, ma anche e soprattutto il punto simbolico d'incontro tra il cielo e la terra, dove l'epifania del sacro può suscitare miracoli e incoraggiare la pietà popolare; documento del prestigio, della cultura e della linea politica di un vescovo, di una comunità religiosa o di un'intera città; e monumento di grande dignità materiale e formale, che talvolta raggiunge una fisionomia plastico-architettonica tanto complessa da ospitare impegnativi programmi iconografici e stimolare incroci tra le arti: specie quando il sepolcro è un vero microedificio che non rinuncia a dialogare con le casse in metallo prezioso e riattribuisce senso a un'intera chiesa, e pertanto va letto in simbiosi con il suo contesto spaziale. Brillante emigrato nella cattedra (a Losanna) ma per nostra fortuna non negli oggetti di ricerca, Tomasi evidenzia quei nessi attraverso lo studio (mai tentato finora, in questi termini) di una tipologia di arca-reliquiario che ebbe particolare fortuna per tutto il XIV secolo nell'Italia nordorientale e prevedeva un sarcofago marmoreo innalzato su sostegni, in genere quattro colonne, che lo esaltavano visivamente e lo preservavano dal "consumo di devozioni". Per giungere all'approdo ha riplasmato per dieci anni una tesi di specializzazione condotta presso la Normale di Pisa e ha messo a frutto una conoscenza dell'arte tardomedievale in proiezione europea che non si è fermata all'antico amore degli avori, ma ha saputo giovarsi della sensibilità pluridisciplinare propria di uno studioso che ha ora raggiunto un'invidiabile maturità critica. In tal senso può sembrare un saggio atipico, se ci si attende una monografia storico-artistica nel senso stretto. Si tratta invece di un'esplorazione a livelli multipli che rivaluta il ruolo di fonte dei testi figurativi, facendo delle arche venete, vere opere polisemiche e quasi multimediali, le protagoniste di una storia che tocca sì la circolazione di modelli e maestranze, ma soprattutto forme e funzioni dei sarcofagi, manifestazioni del culto, orientamenti e personalità della committenza, modi e tempi della comunicazione agiografica (o ideologica) attraverso le immagini e le epigrafi. Tutto ciò non toglie che la spina dorsale del lavoro sia l'analitica schedatura di ventidue arche, dalla più antica del beato Luca Belludi al Santo di Padova (1285) alla più recente di san Liberale nel Duomo di Treviso (1403), passando per snodi cruciali come le arche di san Simeone nell'omonima chiesa veneziana, capolavoro di Marco Romano (1318), dei santi Ermagora e Fortunato nel Battistero di Udine (1340) o il sarcofago paleocristiano recuperato e integrato in San Giovanni in Valle a Verona (santi Simone e Giuda, 1395). La sequenza mette in luce una notevole varietà di soluzioni e combinazioni che incarnano il dinamismo di una tradizione culturale, perché viste le limitate distanze reciproche è ben difficile che l'autore di ogni nuova arca non ne conoscesse almeno una delle precedenti. L'esame comparativo, nutrito da un gran ventaglio di confronti intelligenti che trascendono la mera ricognizione territoriale, fornisce così lo spunto per ripensare la geografia artistica del Trecento veneto e altoadriatico secondo prospettive nuove; e soprattutto per ripensare la storia dell'arte come viatico privilegiato alla storia della società e della civiltà. Fulvio Cervini
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