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Dyson affronta qui il problema più grave che l'umanità ha oggi dinanzi a sé: il rischio della guerra e delle armi nucleari in un mondo che sembra avviarsi fatalmente verso il punto di rottura. Scienziato umanista, convinto che sia ormai tempo di fare dell'escatologia una disciplina rispettabile, Dyson non esita a proiettare la discussione entro la cornice, "antropologica" in senso proprio, di un discorso sui destini dell'uomo e sul significato ultimo della vita: in altre parole, ad ancorare l'analisi tecnica delle armi e dei loro effetti a una meditazione sulla speranza come forza rigeneratrice. Per salvarsi dalla catastrofe nucleare — argomenta Dyson — il mondo non ha bisogno di miracoli tecnologici: per efficaci e sicuri che siano, gli strumenti non offrono garanzie contro i rischi della follia umana. Occorrono piuttosto nuovi e più ampi accordi internazionali che ci consentano di ridurre e infine smantellare del tutto gli attuali arsenali, nuove dottrine strategiche che prescindano dalla "distruzione reciproca assicurata" senza gettarci nell'azzardo di un disarmo unilaterale. Ma occorrono soprattutto nuovi modelli di pensiero e di comportamento, una più lucida coscienza morale da cui trarre forza per spezzare la catena della nostra attuale dipendenza dalle armi di sterminio. In questo spirito Armi e speranza vuol essere anzitutto un appello al dialogo. Un dialogo tra i guerrieri e le vittime perché ricompongano in una trama unitaria le diverse "verità" di cui sono entrambi portatori; tra gli scienziati, i militari e i politici perché subordinino l'orgoglio di casta e le antiche rivalità alle superiori esigenze della causa comune; tra gli strateghi americani e i pianificatori sovietici perché si sforzino di osservare il mondo gli uni con gli occhi degli altri.
Recensioni
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recensione di Salio, N., L'Indice 1985, n. 4
La galleria di scienziati, militari, diplomatici e uomini di governo pentiti, affetti da quella che gli psicologi definiscono la sindrome del pensionato, che si manifesta quando costoro raggiungono i limiti di età oppure sono estromessi dall'establishment per le alterne fortune della vita politica, è ormai lunga e conta nomi illustri: da Oppenheimer, a Herbert York, a MacNamara, al folto gruppo di ufficiali che hanno dato vita all'attuale movimento dei "generali per la pace".
Anche Dyson appartiene a modo suo a questa categoria di pentiti, anzi lo si potrebbe definire addirittura un "pacifista pentito". Come egli stesso racconta: "... nel 1938, avemmo la fortuna di trovare un uomo da seguire e ammirare, Mahatma Gandhi. Lo amavamo per tre motivi. Primo, era contro l'impero. Secondo, era contro le ricchezze e i privilegi. Terzo, il vangelo della resistenza non violenta che predicava ci dava speranza. La non-violenza ci apparve come la grande alternativa al circolo chiuso delle bombe e della morte. Ma poi, troppo sbrigativamente, ci ripete, pur se con parole meno chiare, quanto già aveva detto nel precedente libro, "Turbare l'universo": ''All'inizio della guerra credevo fermamente nella fratellanza di tutti gli uomini, mi proclamavo seguace di Gandhi e, per motivi etici, ero contrario a ogni forma di violenza. Dopo un anno di guerra feci un passo indietro e mi dissi: purtroppo è impossibile praticare la resistenza non violenta contro Hitler, ma rimango moralmente contrario ai bombardamenti. Qualche anno più tardi dissi: purtroppo, pare che i bombardamenti siano necessari per vincere la guerra; accetto dunque di lavorare per il Comando bombardieri... Dopo il mio arrivo al Comando, dissi: purtroppo vedo che bombardiamo indiscriminatamente le città, ma si tratta di un'azione giustificabile dal punto di vista morale, perché ci aiuta a vincere la guerra...". Questo processo di giustificazione procede sino a pronunciare, nel 1945, parole di estremo cinismo a commento della strage di Hiroshima.
Ma perché meravigliarsi? Che cosa ci si può aspettare dagli scienziati, che durante la seconda guerra mondiale, e ancor più negli anni successivi, hanno partecipato in prima persona ai momenti più salienti della corsa agli armamenti nel ruolo di consiglieri scientifico-militari ? Nel descrivere il suo lavoro di scienziato militare Dyson è molto reticente, sfuggente, soprattutto quando dovrebbe parlare della famigerata commissione Jason, della quale fece parte insieme ad alcuni dei più noti scienziati americani, con il compito di sviluppare nuove idee, utili per l'applicazione militare nel campo di battaglia del Vietnam. Dyson ci rammenta particolari secondari spesso insignificanti, o addirittura controversi e inesatti, come sostiene Lord Zuckerman nella "New York Review of Books" del giugno '84 a proposito del periodo trascorso presso il comando bombardieri.
Accanto a questa parte storica, aneddotica, di intento umanistico, che vuole gettare un ponte tra i "guerrieri" e le "vittime", c'è l'analisi propriamente tecnica dei sistemi d'arma e delle strategie militari allo scopo di cercare una strada che conduca fuori dal "labirinto", per "abolire la bomba", come a gran voce chiedono le vittime, senza fare "oscillare la barca", come sostengono invece i guerrieri. L'approccio seguito da Dyson è giustamente quello di mettere in discussione i concetti, potremmo dire i paradigmi, sui quali si reggono le sette principali strategie che egli sottopone all'analisi. Più stringente ed accurata, ma anche più facile da svolgere, è la critica alle tre dottrine militari nucleari attualmente dominanti: la teoria americana della mutua distruzione assicurata, quella sovietica della controforza e infine la concezione Nato delle guerre nucleari limitate. Dyson ne dimostra chiaramente l'infondatezza e mette in evidenza le gravi contraddizioni che esse lasciano del tutto irrisolte.
L'analisi passa quindi a quelle che si dovrebbero chiamare complessivamente strategie propriamente difensive. Tuttavia, la prima di quelle prese in esame, che l'autore chiama "difesa illimitata", non rientra ancora in questa categoria. Essa si fonda infatti su sistemi d'arma che efficacemente l'autore definisce "follie tecniche", ovvero sulla nuova panoplia di armi stellari proposta da Reagan e dai suoi consiglieri, che nell'illusorietà di poter costruire uno scudo spaziale di difesa assoluta stanno esasperando ulteriormente la corsa agli armamenti, avviandola verso un punto pericolosissimo di estrema instabilità e di probabile rottura.
Pur presentando qualche altro spunto interessante, la riflessione proposta da Dyson sugli altri modelli di difesa presenta gravi lacune, tanto da renderla fuorviante. Come accade spesso agli scienziati, quando si occupano di problemi non strettamente di loro competenza, l'argomentazione è svolta sulla base di conoscenze del tutto inadeguate rispetto all'ampio dibattito internazionale tuttora in corso. Pur parlando di armi difensive, Dyson non chiarisce affatto la prima distinzione fondamentale che occorre esplicitare, quella tra difesa offensiva e difesa difensiva, secondo l'analisi ormai classica proposta da Johan Galtung in "Ambiente, sviluppo e attività militare" (Torino 1984). Succede quindi che la quinta strategia presa in considerazione, la difesa non nucleare, intesa semplicemente come difesa per mezzo delle armi convenzionali, non sia sufficientemente ben definita, tanto da ricadere nella difesa offensiva. E questo è ben più grave dal momento che Dyson colloca la sua proposta, "Vivi e lascia vivere", a un livello di offesa superiore alla difesa non nucleare, sebbene al disotto degli altri modelli.
Ma prima di giungere a questa conclusione, egli esamina la settima possibilità: la resistenza non violenta. Da un lato Dyson ne è affascinato, ma dall'altro la respinge considerandola inadeguata, anche se riconosce che, in alcuni casi, è stata impiegata con successo. Le sue argomentazioni, tuttavia, sono insoddisfacenti. Anche in questo caso, ignora totalmente i lavori più specifici: dalla amplissima analisi storica e politica di Gene Sharp ("La politica dell'azione nonviolenta", Torino 1985) alla teoria della difesa popolare non violenta elaborata da Theodor Ebert (La difesa popolare nonviolenta, Torino 1984).
Oltre che insufficiente sul piano delle strategie alternative di risoluzione del conflitto, l'analisi di Dyson è inadeguata anche quando esamina il processo di formazione del conflitto. Gli attori sociali sono scelti dall'autore in modo da lasciare accuratamente in ombra le ragioni più profonde che alimentano il conflitto sociale: le cause di ordine economico e politico, la pressione del complesso militare-industriale-scientifico (che non viene mai nominato), la concezione cui si ispira il modello di sviluppo occidentale.
L'effetto complessivo è quello di un libro ben scritto, accattivante per il suo generico buon senso oppure perché è scritto da uno scienziato che "sa come vanno le cose". Purtroppo, come documenta in uno degli ultimi numeri la rivista americana "Science for the people", è proprio da questi scienziati che occorre guardarsi; sono stati per troppo tempo a contatto con i centri di potere per non continuare a veicolarne, talvolta anche ingenuamente, le ideologie fondamentali.
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