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Il "416 bis" è un articolo introdotto nel codice penale italiano nel 1982 con il titolo Associazione di tipo mafioso. Di tale reato, e precisamente di avere favorito gli scopi criminali di una cosca mafiosa, è accusato il protagonista di questo libro. I sospetti su di lui si addensano sulla base di varie circostanze fortuite, concatenate in modo da poter essere interpretate in sensi opposti. Tutto incomincia con l'incontro del personaggio-narratore con uno sconosciuto, gentile e impeccabile, che gli offre un passaggio vedendolo con l'auto in panne. Segue una telefonata da parte del "beneficato" che vorrebbe sdebitarsi con un invito a cena e invece è a sua volta invitato a una festa. Ci va con un'amica, si trova invischiato in una serie di avvenimenti per lui inspiegabili, e i suoi comportamenti ingenui peggiorano di volta in volta, irrimediabilmente, la situazione.
Giangiulio Ambrosini, magistrato ben noto anche per la sua sperimentata verve di scrittore, mette a frutto la sua conoscenza profonda dei congegni giudiziari per intessere una rete di fatti e circostanze di drammatica ambiguità. Che è facile, ma non senza ragione, definire kafkiana. Il punto di forza di questo libro, breve e densissimo, è il dinamismo del ritmo narrativo, perfettamente omologo sul piano dell'espressione all'incalzare inarrestabile delle vicende raccontate, fino all'interruzione finale: "In nome del popolo italiano
". Non è una chiusura, ma un lasciare in sospeso: un'apertura su possibili opposte conclusioni, un prolungare indefinitamente l'ambiguità che è la cifra di questa attraente prova letteraria.
Nella pagina introduttiva l'autore ci avverte che una scrittura adeguata alle esigenze di una lettura veloce consona agli "spazi minori" e ai "tempi ristretti" attualmente riservati al leggere non è a sua volta "veloce", tanto costoso è il lavoro di riduzione all'essenziale che comporta, fra l'altro, la rinuncia a risorse consacrate della scrittura letteraria, a ingredienti che sembrerebbero insopprimibili. La scelta più ardita, nel libro di Ambrosini, è stata la privazione dei segni di punteggiatura. Sappiamo tutti che in certi casi basterebbe spostare un punto o una virgola, eliminare un punto interrogativo o sostituirlo con un esclamativo per modificare o addirittura capovolgere il significato di una frase. Tutto vero, in condizioni normali. Ma nella scrittura letteraria i giochi si fanno più complessi. Per dirlo in breve: non sempre l'assenza dei segni di interpunzione significa assenza di punteggiatura intesa come mezzo di demarcazione e di scansione degli elementi di un discorso.
Alcuni studiosi francesi hanno distinto la ponctuation noire, l'insieme dei segni consueti, dalla ponctuation blanche, che è il modo di interpungere avvalendosi unicamente del bianco. "Un bianco non è un'assenza di punteggiatura, pur essendo un'assenza di segno grafico di punteggiatura", ha scritto Henry Meschonnic (la traduzione è di Elisa Tonani, nella rassegna bibliografica che apre la sua tesi di dottorato Tra punteggiatura e tipografia, Università di Genova, 2007). La ponctuation blanche è tipica della poesia, dove coabitano i due modi di interpungere, che possono alternarsi in una stessa raccolta. Difficile ma non impossibile adibire unicamente la "punteggiatura bianca" nella narrativa. Esercizio letterario impervio, l'uso esclusivo del bianco nella prosa non è affare da poco né di tutti, se al bianco si affidano funzioni paragonabili in parte a quelle della "punteggiatura nera". E se queste si rivelano mirate alla ricerca, significativamente predominante, dell'effetto ritmico che ha un "presto" in uno spartito musicale. È quanto si sperimenta, con interesse e gusto almeno pari all'impegno collaborativo che la lettura richiede, nel libro di Ambrosini. Questo suo "annullamento" dell'interpunzione tradizionale non è assimilabile a più o meno famosi precedenti solo apparentemente analoghi (gli esempi non mancano, dai futuristi a oggi): da questi differisce originalmente per la regolarità con cui il variare in lunghezza delle righe del testo corrisponde a scansioni sintattiche e ritmiche. Ne risulta un periodare svelto, concentrato. I cui snodi sono segnati dal bianco che delimita i segmenti testuali e determina le articolazioni della struttura narrativa.
L'operazione "in togliere" che la scelta interpuntiva ha comportato provoca il lettore a ricostruire i nessi tra le frasi, a situare il racconto, cioè a riconoscere tempi e luoghi sulla base di fatti e circostanze, di pensieri e sentimenti enunciati, e a individuare i personaggi introdotti a parlare. Nell'incalzare della narrazione troviamo intarsiate anche battute di dialogo. La marcatura dei turni (domande, risposte, obiezioni, repliche e controrepliche) è affidata in parte ai verbi introduttori dei vari tipi di discorso ("mi interrompe; dice; obietta; replico; insiste, oppone ecc."). Quando questi sono omessi, balza in piena luce il variare di modi e tempi verbali: dall'indicativo, presente o passato, per l'esposizione di fatti, le didascalie, le asserzioni ("vero che un certo commissario / mi fa il nome / arrivato all'ultimo / ha impedito il blitz / non ne sapevo nulla"), al condizionale cosiddetto di citazione, con l'effetto incisivo di segnalare gli spostamenti dei punti di vista e perciò il riferimento agli attori del dialogo ("dice che mento / avrei informato quel commissario / dall'interno del covo mafioso (
) / il commissario ha fatto fallire l'operazione / io l'avrei fatto intervenire / in connivenza con i mafiosi (
) / è tutto assurdo / ho una riprova"). La semplicità e la rapidità dell'espressione riesce a privare di peso anche la principale aporia della "punteggiatura bianca": la sua impossibilità di rendere il tono interrogativo.
Varrebbe la pena di esemplificare senza risparmio. A me pare che la scommessa di Ambrosini con il suo pubblico ideale possa ragionevolmente dirsi vinta dall'autore, e proprio là dove le difficoltà erano più consistenti.
Bice Mortara Garavelli
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