Racconta nella nota tardiva di "mettere le mani su una materia che per me è ancora calda, fumante, e, per me, vera: perché è vero che aspettiamo sempre l'atteso, e, quando arriva l'ospite, dobbiamo decidere che accoglienza fargli". E allora, ancora più significative si preannunciano le pagine di L'attesa (ora che più di vent'anni le separano dalla prima edizione Feltrinelli, parzialmente riveduta), strutturata in quattro capitoli, ognuno dei quali legato a un'occasione specifica (fra cui un convegno sul surrealismo e la morte di Italo Calvino). Sono pagine di difficile definizione, in cui le parti saggistiche si inverano in quelle dal carattere più specificamente narrativo, trovando una nuova luminosità in quelle dedicate all'esperienza personale, agli scorci più spiccatamente lirici, poetici. È tutta tesa a individuare le molteplici declinazioni che il tema dell'attesa, instillato originariamente dalla proposizione di Wittgenstein ("Noi aspettiamo questo e siamo sorpresi da quello"), sviluppa in prossimità di condizioni quali la noia, il dolore, la speranza, la sorpresa, Ginevra Bompiani. Ma più che un tema, l'attesa si configura qui come un paesaggio mentale, un vero e proprio orizzonte interiore stagliato di volta in volta su altezze differenti ("L'attesa può dunque compiersi in due modi: essere tradita dalla sorpresa o soddisfatta dal compimento"; "Ogni attesa si compie nel riconoscimento, fosse pure il riconoscimento che non c'è più nulla da aspettare"), per le quali non sarebbe possibile la comprensione, l'individuazione, senza il ricorso e il confronto costante, il "saccheggio" puntuale, al mondo dell'arte, della letteratura. Lo spunto offerto dal filosofo viene lanciato lontano, fino a intercettare nella sua traiettoria le pagine di Novalis, Valery, Borges, Caproni, Tasso, Benjamin, Stevenson, ognuna evocata in affinità e contrasto anche a partire da ragioni eminentemente storiche: "Se James ha mostrato, all'inizio del XX secolo, il volto vuoto e terribile dell'attesa pura, millenaria, che non riconoscerà il suo ospite quando si presenterà (
), il surrealismo ci mostra l'altro versante della coppia divisa, la sorpresa". Ed è proprio nel racconto di Henry James, La belva nella giungla, qui esaminato a partire dalla figura di John Marcher, un uomo destinato a contemplare e contemplarsi, dalla vita a forma di attesa, dall'esistenza traumatizzata e compiuta non vivendo e attendendo, nella posizione di chi è in ascolto, che tutte le ipotesi, le tesi, il senso stesso della ricerca, possono a parere di chi scrive trovare la giusta quiete. Perché alla fine, il paradigma dell'attesa, coniugato, sviluppato, suggerito e di volta in volta luminosamente reinventato, lì torna, e lì deve tornare, a inchiodare l'esistenza a ciò che le spetta, a ciò che la aspetta: "In questo gioco (
) fra tempo lineare e tempo circolare (
), si rivela la profonda fraternità di attesa e compimento; perché la vocazione matura nell'attesa − sia attesa di Dio o attesa dell'ispirazione, la vocazione è la chiamata a trasformare la vita in uno stato di attesa − ma si compie fuori di essa". E a stagliarsi sullo sfondo, a definire l'orizzonte e tratteggiare le sue latitudini, netta, potente, illuminata di una luce propria, pare proprio di poter intravedere la figura di Simone Weil. Raffaella D'Elia
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