Il libro racconta la storia di Domenico Bretti, detto il bandito Amorotto, un fuorilegge che, nel vuoto di potere creatosi a seguito delle guerre d'Italia a inizio Cinquecento, seppe costruirsi una carriera politica capace di impensierire i potentati italiani tra il Po e l'Appennino. Collaborando con successo alla conquista di Modena e Reggio da parte del papa guerriero Giulio II, Domenico ottenne una serie di concessioni che accrebbero il suo potere e gli permisero di trattare alla pari con signori dal lignaggio ben più prestigioso, quali gli Este. Quando però governatore papale di Reggio divenne Francesco Guicciardini, le cose cambiarono. Deciso a stroncare i focolai di anarchia politica (e qui l'autore ha buon gioco a scoprire la coerenza tra le teorie politiche guicciardiniane e la loro realizzazione pratica) Guicciardini, preoccupato dal potere di Domenico, decise "levargliene absolutamente per qualunche via" e, dopo paci, congiure, altre paci e trame sempre più intricate, arrivò alla conclusione che "mai riposerà el paese se non si impicca". Anche se non andrà escluso un ruolo di Guicciardini nella fine di Domenico, essa avverrà in uno scontro con il bandito rivale, il "guelfo" Virgilio da Castagneto (tali definizioni di origine medievale non avevano più alcuna ricaduta ideologica, tanto che il "ghibellino" Domenico fondò il proprio potere sull'appoggio ecclesiastico, ma servivano da etichetta per le divisioni fazionarie tipiche delle città italiane del Rinascimento). Il cadavere di Domenico venne poi privato delle mani e della testa, entrambe mutilazioni dal significato simbolico fortissimo: se il taglio delle mani lo relegava al ruolo che gli era stato imposto (quello del ladro comune), la decapitazione era "la vera esecuzione in quanto la morte biologica del montanaro, avvenuta per ferimento a cavallo, è un'uscita di scena da guerriero, frutto di un confronto paritetico, e non soddisfa la necessaria unilateralità dell'uccisione del fuorilegge (...) il suo corpo subisce dopo la morte l'esecuzione che le autorità non sono riuscite a mettere in atto quando era vivo. Non sono, tuttavia, gli ufficiali dello Stato a portare a termine il compito; gli uccisori si rivestono allora dell'autorità di cui formalmente non sono investiti imitando un'esecuzione". Questa vicenda romantica (già oggetto di una monografia ottocentesca) viene scrostata dall'autore, che vi scopre una quantità insospettata di significati, importanti non solo per la storia politica cinquecentesca. Un altro gigante della storia letteraria a cui Domenico darà non pochi grattacapi fu, infatti, il dirimpettaio di Guicciardini, il governatore estense della Garfagnana Ludovico Ariosto, il quale, "avendo egli più possanza in questi paesi che non hanno gli oficiali di vostra eccellenza", preferì sempre averlo più come "amico che inimico, finché un dì messer Domenedio provegga che possiamo più di lui". Il volume intende però offrire anche una lezione di metodo: come può lo studioso arrivare a capire chi fu veramente un personaggio che il duca di Ferrara Alfonso I d'Este definì "il più sanguinario et crudel assassino che porti vita", responsabile, secondo Guicciardini, "di homicidii, incendii et mille extorsioni e di una tirannide da potersi comparare a molte di quelle antiche", mentre altre fonti raccontano di come "i contadini s'abbracciassero e rifuggissero a frotte al Morotto, e lo salutassero protettore e padre"? L'autore cerca di risolvere questo problema ricorrendo all'unico strumento disponibile allo storico in situazioni di questo tipo: la comparazione. E quindi si serve, per comprendere meglio il caso del bandito Amorotto, di analoghi episodi del folklore europeo medievale (da Robin Hood a Ghino di Tacco), della Bibbia, delle guerre d'Africa ecc., mettendo in discussione il modello del "bandito ideale" di Eric Hobsbawm, che "attinge a topoi che sembrano provenire più dalla letteratura che dalla storia". All'interno di un uso così vasto del metodo comparativo, l'autore avrebbe potuto forse servirsi di altri due esempi, più vicini rispettivamente nel tempo e nello spazio alle vicende di Amorotto. Da un lato la guerra dei contadini tedeschi, che negli stessi anni, sotto la guida di Thomas Müntzer, misero a ferro e fuoco la Germania prima di venire sterminati dai principi territoriali con la benedizione di Lutero. Dall'altro la resistenza partigiana, i cui membri godettero del sostegno popolare per ragioni simili a quelle dell'Amorotto, non da ultimo per l'autorità che gli veniva dall'aver preso la via dei monti (e a questo proposito andrà notato che la repubblica partigiana di Montefiorino sorse e cadde sulle stesse montagne che furono teatro delle gesta di Domenico, uno dei cui ultimi discendenti, Giuseppe Amorotti, venne trucidato nel 1944 proprio durante un rastrellamento nazista a Carpineti). Ma forse la risposta più vera è, per una volta, nelle parole stesse del protagonista di questa storia: "siano certe vostre signorie che tuto il male habiamo facto cuntra gli citadini di questa cità, l'abiamo facto sforzatamente (...) per diffenderci, e vivere, e non per nostra malignità". Come avrebbe detto un personaggio (Machiavelli) la cui presenza aleggia in tutto il libro, "quello del populo è più onesto fine che quello de' grandi, volendo questi opprimere, e quello non essere oppresso". Lucio Biasiori
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