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Pensare a Beirut, forse, per molti vuole ancora dire figurarsi una città semidistrutta dalla guerra. Eppure "la tentazione di parlare della città in guerra, di come essa ha dovuto adattarvisi" è da esorcizzare, sembra suggerire lo storico Samir Kassir nell'elegante introduzione al suo volume Beirut. Storia di una città (Einaudi, 2009; cfr. "L'Indice", 2010, n. 1). Ma rivela anche: "L'anomalia più straordinaria sta nell'ostinazione degli abitanti a voler vivere, comunque, in una maniera non troppo dissimile da quella normale mentre le condizioni vi si prestano così poco".
La joie de vivre straripa dalle pagine della giovane artista beirutina Zena el Khalil, e non è tanto voglia di normalità, bensì di trasgressione e di libertà anche espressiva. Zena a Beirut è tornata volontariamente dall'Amrika, dopo tre reincarnazioni, dopo il naufragio del Titanic, allora era Hussein, dopo la sua rinascita di bambina del mare Amal (speranza), e dopo aver vissuto a New York fino all'11 settembre 2001, come Zena, artista, nella vita presente. Se è vero che Beirut suscita una "suggestione nostalgica che innumerevoli intellettuali, adesso sparsi per il mondo, dichiarano di provare per una dolce vita beirutina la quale li univa al di là dei loro antagonismi", Zena rivendica proprio quella dolce vita, ma in chiave attuale, come farebbe un giovane in qualsiasi parte del mondo. Di giorno poter guidare per le strade della città per recarsi a una mostra o in spiaggia, e poi la sera uscire, bere e ballare fino all'alba, fare sesso, sposarsi e magari avere dei figli. Però a Beirut tutto è difficile: quando all'improvviso scoppia un'autobomba e non riesci a prendere la linea telefonica e qualcuno ti dice che il quartiere è quello dove tua madre si reca in ufficio, tutto ciò che stai facendo, pensando o progettando diventa futile; quando nelle strade i posti di blocco controllati da giovanissimi ti costringono con l'arroganza del vantaggio di essere maschi e armati a guidare in retro dentro un tunnel e devi studiare percorsi alternativi per andare al mare, nonostante tutto, Beirut esplode in tutta la sua follia.
Quello di Zena è un viaggio culturale, sentimentale e identitario nella Beirut un po' americana e un po' francese, di drusi, maroniti e islamici, con la difficoltà di essere artista e donna insieme, quando "ti rendi conto che in arabo non esiste neppure la parola per dirlo?"; con i divorzi di giovani donne come l'amica Maya, morta di cancro, che ha girato la città vestita da sposa in un'ebbra corsa in auto che imputano a Beirut modelli di mascolinità che ricalcano la follia propria della città: "Beirut, dammi la forza. Beirut, un altro uomo che mi lascia. Beirut, do la colpa a te. Beirut, ti odio". L'autrice intende de-centralizzare New York, capitale di rifugiati, che abbandona, e re-iscrivere Beirut nel contesto che da sempre storicamente le appartiene di città-crocevia del Mediterraneo, proprio per questo contesa tra sfere di influenza contrastanti, traversata da flussi di armi, capitali e interessi geopolitici che distruggono la città-Fenice o la lasciano dilaniata dagli attentati, dalle migrazioni e dall'arrivo di profughi.
Zena el Khalil, però, con il suo linguaggio vibrante, spregiudicato e sorprendente, graffiante e ardito, sembra voler rinnovare e "resistere" in senso postcoloniale, politico e civile (si veda il suo diario "beirutupdate.blogspot.com") a ogni immagine che possiamo crearci di Beirut, la cui complessità storica, religiosa e politica è inesauribile. Parlare di Beirut, da Beirut, vuol dire prima di tutto trovare un posto per sé, agire da artista come una specie di scossa sismica, anche affettiva, in una congerie cosmopolita che rischia in ogni momento di annientarti, ma che abbraccia la ricostruzione e la vita, in dialogo con la morte, come quando Zena, con un altro tocco di realismo magico, tira fuori Maya dalla tomba, e le parla, prima di lasciarla andare. Carmen Concilio
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