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"Le belle stagioni" di Franz Krauspenhaar partono dall'inverno e all'inverno tornano, attraversando primavera estate e autunno. Krauspenhaar (nato a Milano nel 1960 da padre tedesco), immagina una sua discendenza da un antenato olandese del 1400 - Frans Kroeshaar-, costretto a lasciare le sue terre per una persecuzione politica : "sono assorto a scrivere/ di Frans e so che scrivo di me,/ con vesti antiche". Un evidente pretesto letterario, la metaforizzazione di un'esigenza profonda, quella di una definizione del proprio io mai del tutto compreso e ricostruito. La ricerca del sé, il recupero di un passato che possa rendere meno sfocato il presente affiora ovunque, insieme a una sorta di disamore, di sprezzante fastidio per la propria vicenda esistenziale: "io son diventato/ una luce intermittente, un fanale/ che perfora la nebbia, e non sa dove/ s'è lasciato sfondare"; "l'agonia/ mi segue da decine d'anni"; "Negro/ di te stesso, nemmeno ti fai pena". Le parole si fanno violente, rabbiose, nei confronti della propria vita e di quella altrui, senza nessuna clemenza nei riguardi del mondo, delle donne, della cultura contemporanea e dell'ambiente circostante. Anche l'amore è ormai ridotto a qualche stanca tenerezza con amiche comprensive, o a una sessualità vissuta con volgare violenza. Formalmente, la poesia di Krauspenhaar si definisce al meglio proprio quando appare più esasperata, torrenziale, debordante, come nel primo capitolo dedicato all'inverno. Nelle altre sezioni, l'autore sembra esagerare nei contenuti, con riferimenti poco giustificabili alla storia mondiale e ai suoi protagonisti, lasciandosi prendere la mano sia da un descrittivismo eccessivo, sia da una sentenziosità didascalica alquanto retorica. Un'ansia di sfogo e di indignazione, che arriva a inficiare l'incisività altrimenti considerevole di queste poesie.
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