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Anno edizione: 2015
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La protagonista del libro riconosce, o crede di riconoscere, in una donna dal logoro cappotto giallo,intravista fra la folla del metrò, la madre che credeva morta anni prima in Marocco. Si tratta davvero di un fantasma del passato o è solo l'immaginazione della narratrice ad attribuire a quella donna dei tratti vagamente familiari?Si apre così un'ossessiva indagine privata, una vertiginosa ricerca nella memoria da cui, febbrilmente, riemergono luoghi,personaggi, dettagli che hanno segnato la vita della giovane indagatrice, a partire da quel vago nome d'arte datole da una madre assente:Bijou. Con un inimitabile talento narrativo Patrick Modiano spinge il lettore in una zona di confine, un luogo labirintico dove la ricerca degli affetti perduti può spingere a perdersi o,inaspettatamente, è in grado di segnare una rinascita.
La protagonista del libro riconosce, o credere di riconoscere, in una donna dal logoro cappotto giallo, intravista fra folla del metrò, la madre che credeva morta anni prima in Marocco. Si apre così un'ossessiva indagine privata, una vertiginosa ricerca nella memoria delle tracce di un passato mai rimosso in cui riemergono, febbrilmente luoghi, personaggi, dettagli che hanno segnato la vita della giovane indagatrice,a partire da quel vago nome d'arte datole da una madre assente:Bijou... Con questo romanzo intessuto di rimandi, di silenzi che accompagnano una vita incompiuta, vissuta nell'ombra, Patrick Modiano si conferma uno dei più importanti autori contemporanei.
Una giovane donna intravede nel flusso della folla della metropolitana di Parigi una signora con un cappotto giallo. Crede di riconoscere in lei sua madre, scomparsa quando era ancora una fanciulla e fino a quel momento creduta morta. Inizia così la devastante ricerca sul suo passato aiutata da vecchie foto, indirizzi di lettere, rubriche di indirizzi. Una ricerca che non approderà a nulla, ma che permetterà alla protagonista di questo lungo racconto di Modiano di porsi di fronte alla scelta fondamentale.
Recensioni
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A Patrick Modiano (autore, dal '68 a oggi, di una ventina di romanzi) la forma della quête è particolarmente congeniale. Come racconto di una quête si presenta Rue des Boutiques Obscures (1978): il narratore, che ha perso la memoria alla fine della seconda guerra mondiale, cerca di ricostruire il puzzle della propria identità nella Parigi del 1965, giustapponendo frammenti malcerti di esistenze altrui. Ben diversa, ma non priva di punti di contatto, la quête raccontata in Dora Bruder (1997; Guanda, 1998; cfr. "L'Indice", 1998, n. 8): ricostruendo i percorsi di un'adolescente ebrea in fuga nella Parigi dell'occupazione, Modiano finisce per assimilarli e confonderli con i propri ricordi di adolescente sbandato degli anni cinquanta, disastrato dal difficile rapporto con un padre assente e distratto, che ha vissuto in ambienti loschi ai margini della collaboration . In entrambi i casi, al lettore viene proposto il graduale itinerario verso una verità che emergerà soltanto in parte, tra irriducibili zone d'ombra. Una verità che non è scioglimento dell'intreccio, appagamento di curiosità accumulate, chiusura dei conti con quello che è stato, ma consapevolezza di una continuità tra passato e presente che nulla può spezzare. "Io credo si senta ancora - dice il narratore di Rue des Boutiques Obscures -, negli ingressi di certi stabili, l'eco dei passi di coloro che avevano l'abitudine di attraversarli e che in seguito sono scomparsi. Qualche cosa continua a vibrare dopo il loro passaggio, delle onde sempre più deboli, ma che è possibile captare se si fa attenzione".
È proprio la stessa umbratile e problematica continuità tra passato e presente il motivo centrale di Bijou . La voce che racconta è quella di una donna, Thérèse, che evoca l'inverno dei suoi diciannove anni, vissuto nella Parigi del 1967 (data non indicata esplicitamente, ma coerente con tutti i riferimenti sparsi nella narrazione). La Parigi della sradicata Thérèse è quella di tutti i solitari. Ricorda da vicino lo sfondo di Un homme qui dort di Georges Perec: è fatta di caffé grandi e piccoli, di librerie aperte fino a tardi, di farmacie notturne, di stazioni affollate, di tutti quei luoghi in cui chi è privo di famiglia e di amici si trova a passare e ripassare, fuggendo l'anonimato di una stanza dove cerca di tornare il più tardi possibile. Babysitter presso una coppia ricca, ma un po' equivoca, nel lussuoso quartiere del Bois de Boulogne, Thérèse accudisce una bimba dagli occhi spaventati, nella quale le pare di riconoscere se stessa bambina: le loro esistenze sono segnate dalla stessa mancanza d'amore e dallo stesso, invasivo sentimento di estrema precarietà.
È un elemento di continuità con il passato, che viene ad aggiungersi a un altro, ben più inquietante: in una donna dal logoro cappotto giallo incrociata in métro, Thérèse ha creduto di riconoscere la madre, che dodici anni prima l'ha abbandonata e che, a quanto le hanno detto, dovrebbe essere morta da tempo, in Marocco. L'enigma della sconosciuta, che Thérèse non osa abbordare, invade a poco a poco la vita della ragazza: tornano ricordi indesiderati, interrogativi senza risposta, incubi legati a luoghi che ossessivamente riappaiono. È come se un passato di morte e dolore riaffiorasse per risucchiare Thérèse e portare a termine l'opera distruttrice della sua infanzia: ecco che il quartiere della gare de Lyon (sul cui grande orologio, da piccola, ha imparato a leggere l'ora) diventa, con i suoi viali scuri, il più terrificante dei labirinti, mentre dal passato risorge, ossessiva e desolata, l'immagine di un grande appartamento con quattro gradini bianchi, rivestiti di peluche . È quando viveva in quell'appartamento che Thérèse, a sette anni, ha tentato, accanto alla mamma ballerina, una brevissima carriera di bimba prodigio: con il nome d'arte di Bijou ha girato un unico film, finanziato da un ricco protettore della madre e votato all'oblio.
Sta nell'insuccesso del film la chiave della tragedia di Thérèse, di quel disamore materno che ha fatto di lei una sorta di cadavere "prigioniero dei ghiacci"? Certo tutta la sua infanzia è concentrata nel paradosso di quello pseudonimo, che gli altri credono un nomignolo affettuoso, e che invece cristallizza le ambizioni di una madre incapace di offrire tenerezza e protezione. Sul romanzo - che si chiude con una sorta di rinascita della protagonista, dopo un disperato tentativo di suicidio - quel nome, Bijou , assunto a titolo , continua a pesare, carico di crudeltà inesauribile, di irrisolto dolore. Ancora una volta, al termine di una quête modianesca, non ci sono riposanti certezze né scioglimenti pacificatori.
Mariolina Bertini
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