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1996
22 maggio 1996
144 p.
9788879892674

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freddy
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Il titolo vero, quello scelto dall'autrice, era: "In bocca più di tutto mi piaceva". Purtroppo è stato cambiato.

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Voce della critica


recensione di Rossanda, R., L'Indice 1996, n.11

Un padre sorridente, una madre severa, una figlia che ama l'uno e detesta l'altra: le figure freudiane sono in scena. Di più, la madre non ha latte per la piccola; è in scena anche l'assenza kleiniana del seno materno. Sarà il padre a nutrirla portandole una capretta e sottolineando la situazione edipica, che da parte sua la madre conferma, prediligendo il figlio maggiore. Nel doppio incrocio fra genitori e figli, quasi due schieramenti in guerra, ogni intesa tra fratello e sorella è preclusa. Anzi il cattivo figlio sussurrerà alla piccola che è arrivata tardi, non voluta, non desiderata, colpevole financo di aver portato in fin di vita la madre al suo arrivo. Insomma illecita su questa terra, e per questo la madre non l'ama; non ha che il padre a volerle bene, suo tenero complice che l'aspetta e accoglie festevole per passeggiate, circhi, carezze a due. Le basterebbe se al suo sguardo inquieto e geloso sfuggisse che tra la bellissima e dura e il bellissimo e dolce, prima e dopo i figli, c'è l'amore coniugale, giardino segreto interdetto ai bambini, dove i due ridono e si sorridono. Duplice tradimento ben più amaro della scena originaria che parla l'oscurità dell'inconscio, ed è mescolata di desiderio, questa è una ferita avvertita dalla coscienza vigile: sorridono l'uno all'altra e non a me.
La bocca bellissima della madre - quella soprattutto le piaceva - si nega alla piccola, che è simile all'uccelletto tutto becco spalancato in attesa di un cibo che non viene. È invece l'occhio della madre che incombe, la coglie sempre in fallo, la giudica inseguendola fin nel sogno ricorrente e terribile di un'immensa pupilla che la scruta da una casa sinistra. Il padre non è soltanto l'amato cui è preziosa, è anche quello che la libera, approva la sua corsa verso il mondo, che pur lo ha deluso, le insegna la curiosità per l'altro, la non avarizia di sé: nel suo tenero specchio la piccola può guardarsi e volersi bene, e le sono aperte tutte le porte che quella, la madre, chiude.
Ma il padre morirà troppo presto, imprevedibile, insopportabile tradimento. L'adolescente resta priva del solo che le aveva dato latte e amore, e l'abbandono si trasforma in comando contro di sé: non l'hanno nutrita, lei non si nutrirà più. Anche l'anoressia, esito ultimo dei male amati, è classicamente in scena: la ragazzina si lascia morire, anzi decide di morire, bocca negata per bocca negata. Come Pentesilea rivolta contro di sé il pugnale della sua pena, il suo furore domina la fame, si abbevera di fame e dei suoi succhi velenosi, cancella lentamente il corpo. In quel deserto di derelizione sarà lo sguardo d'un uomo, ancora una volta, a guardarla con infinita pietà, a vedere lo sfinimento di quel corpo avvilito coprendolo con delicatezza; è un medico che oppone alla sua violenza suicida una violenza salvifica, costringendola subito nell'ospedale, non senza aver detto alla madre la verità della verità: la incriminerò per omicidio se non la ricovera, se non la toglie da sé immediatamente. In ospedale violeranno la bocca, la gola, lo stomaco che teneva serrati, vincerà nel suo furibondo dibattersi il suo rigetto, e l'odioso cibo scenderà per cannule e sonde nei tessuti, alimentando un corpo immobilizzato e deprivato da ogni volontà proprio quando stava raggiungendo la morte. E infatti la morte era già là, ha lasciato l'impronta della sua zampa, ha tenuto un lembo della ragazza per sempre con sé. Lei vivrà, ma n‚ del tutto all'ombra n‚ del tutto al sole, il crepuscolo sarà la sua ora, la fine del giorno la sua tonalità, il non essere l'eco dei suoi giorni.
Nello schema classico di un'adolescenza femminile in perdita per troppa negazione d'amore, è questo finale che segna una svolta, che fa l'unicità di "La bocca più di tutto mi piaceva", prima prova narrativa di Nadia Fusini, critica letteraria e anglista. Del fragile confine fra memoria e romanzo, interpretazione e narrazione, molto si è detto all'uscita del libro, ma forse non è decisivo: l'infanzia è già altro da noi, la memoria la riscrive fra effettività e sogno, è oggetto di interpretazione non così dissimile da quella di un testo. Più interessante è come il racconto prenda e lasci l'antico tema virgiliano della creatura "cui non risere parentes", cui la madre non ha sorriso, e che per Gadda era la via stessa della cognizione del dolore. In Fusini, più che storia d'una negazione sembra storia di una formazione attraverso il parossistico rifiuto della vita, nel dover essere partoriti una seconda volta e, come la prima, fuori dal proprio volere. Ne testimonia il linguaggio che dalla quasi mimetica asseverazione infantile della prima parte - le parole della paura e dell'incanto dei bambini, del loro diffidente procedere nei luoghi degli adulti e nell'elezione di favolosi luoghi propri - si dispiega terso e maturo dopo quell'avvicinamento alle rive nere dello Stige, sciolta ogni insistenza e accettato quel vivere a solarità dimezzata, fra luce e ombra, sospese l'una a far fede dell'altra.
Ed è questo approdo a gettare un'ambiguità su quanto pareva consueto, archetipico schema della figliarità. Quell'immenso amore per il padre e nostalgia della bocca della madre, desiderata e distante, detestata perché non si concede, segretamente ammirata perché sicura. Deposto il libro, l'immagine del padre meraviglioso resta come sfocata in quella di uno sconfitto, amabilmente debole, così debole da non esser neanche capace di restare in vita per proteggere la sua figlietta. La madre è di quelle che ce la fanno, che mantengono le redini della dura esistenza, permettendo al seducente padre di vivere quel suo mondo tra velleità e principi senza precipitare se stesso e i suoi nello sfascio. - lei la vitale, figura cerata e sottraentesi di chi ha imparato lezioni poco amene e indispensabili. Nadia ha respirato tramite il padre e poi di nuovo attraverso lo sguardo del medico, ma la forza le viene da lei. La non amante e non amata. Forza e amore non vanno insieme.
Ambigue dunque le figure parentali, se è poi dalla madre che Nadia Fusini eredita il bel volto orientale, la bocca e gli occhi indaganti mentre dal padre sembra venirle l'estroversione, il sorriso, la curiosità per l'avventura. Ambigua la vicenda dell'anoressia, oggi così corrente; la ragazza del romanzo non è spinta nella morte dall'inconscio, la cerca, è il più praticabile dei suicidi oltreché magro fantasma nell'eterno rimprovero che intercorre fra madre e figlia: ma che cosa mi stai facendo? Suicidio come se una vita vera dovesse essere ricominciata dopo una sua perdita assoluta - una vita diversa dalle proiezioni a colori dell'infanzia, senza più n‚ giorno n‚ notte, tempo di indagine, tempo di riflessione. Esser sole è cognizione non soltanto del dolore, è cognizione in senso pieno, gusto del conoscere quel che trascorre nella storia e nella cultura, e non appartiene all'immediato eterno naturale, come lo sprofondare nella bella fertilità femminile, nel dare al mondo i figli, reggerne i passi, alimentarli, curarne le sofferenze e seppellirli.
E questa è la felice ambiguità di Nadia Fusini. Nei suoi scritti sta una nostalgia del materno, mai perduto e mai perseguito fino in fondo. Ripresentando "Al Faro" (Feltrinelli, 1992) di Virginia Woolf, Nadia Fusini tradiva l'incanto che ha per lei la signora Ramsay, madre perfetta e perdipiù dolcemente sposa nei suoi "a parte" col signor Ramsay. Chi non le somiglia - quante di noi non le somigliano? - si scalda sulla sua immagine da lontano. L'icona femminile seduce Fusini, che in "Fedra" ha cercato la potenza originaria, ctonia, della grande dea mediterranea abbattuta dal bellicoso e stupido Acheo ("La Luminosa. Genealogia di Fedra", Feltrinelli, 1990). Come Medea, scriverà Christa Wolf. L'icona di una parte del femminismo, quella dell'ordine simbolico della madre, proiettata in una irriducibile assolutezza. E tuttavia sembra che Fusini la rincorra e la perda o la getti: in "Uomini e donne" (Donzelli, 1995; cfr. "L'Indice", 1996, n. 3) tenta una fraternità non tanto fra i due sessi, che ti ingabbiano nel genere, ma nel primato del rapporto fra individui e individue di un sesso e dell'altro. Nella riedizione di "Nomi" (Feltrinelli, 1986) - profili di scrittrici - ancora una volta persegue una femminilità del linguaggio che sarebbe assoluta. Come se concedesse a quel che in lei, e in molti di noi, è androgino: nostalgico del genere e irriducibile al genere. Nadia sta e non sta nel femminile. Non so che pensi di una buona madre o - direbbe Winnicott - una abbastanza buona madre, come in genere sognano di essere le figlie segnate da un'insufficienza materna nell'infanzia. Che cosa diavolo è una buona madre, se è madre cattiva la, per dir così, signora Fusini senior del romanzo, per la quale nutrire è, come per il biblico Giuseppe, un atto di preveggenza e amministrazione piuttosto che una fiumana di oblatività, disponibilità, attenzione, comprensione e perdoni per la propria creatura? Uno legge e si dice, beh se da una madre alquanto virile e un padre alquanto femminile vengono fuori le Nadie, non è poi così male.

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La recensione di IBS

Una bambina selvatica e riottosa, la scura pelle da zingara. L'amore sfrontato e incontenibile per il padre - gioia, tenerezza, passione. Una istintiva attrazione per la morte; uno struggente e contraddittorio legame con la vita.Sullo sfondo, l'acredine di una Maremma realissima e al tempo stesso fiabesca, che si fa specchio dell'anima, coi suoi odori, le sue solarità, le sue albe e i suoi tramonti: la grande casa di campagna del nonno, la torre costiera, le cacce mattutine negli acquitrini, gli adulti spiati per carpirne le più segrete intimità.
Poi, come ineluttabile conseguenza, sul limitare dell'adolescenza, la malattia; l'esplosione durissima - estrema - del conflitto con se stessa; la resa dei conti decisiva con il mondo, con l'esistenza, con la madre; con quel volto bello di una bellezza inafferrabile, con quella bocca incapace di baciare.
Dietro l'artificio di un «io» autobiografico che adatta continuamente il proprio registro al variare delle età, dei ricordi, delle cadenze della memoria, Nadia Fusini rivela in questo suo primo romanzo limpidissime doti di narratrice. La frequentazione e la consuetudine con la grande letteratura di questo secolo trascolorano nel linguaggio distillato di una conquistata semplicità. Una consapevole e dolorosa esperienza femminile si dichiara, si fa romanzo, diventa emozione, commozione pura.

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Conosci l'autore

Nadia Fusini

1946, Orbetello

Insegna Letterature Comparate presso il Sum, Istituto Italiano di Scienze Umane di Firenze. Traduttrice di moltissimi autori tra cui Keats, Beckett, Woolf, autrice di romanzi - "La bocca più di tutto mi piaceva" (1996), "Due volte la stessa carezza" (1997), "L'amor vile" (1999), "Lo specchio di Elisabetta" (2001), "L'amore necessario" (2008) -, si è imposta all'attenzione della critica e del pubblico attraverso una vasta produzione di saggi tra cui "Nomi. Dieci scritture femminili" (Donzelli 1996), "Donne fatali. Ofelia, Desdemona, Cleopatra" (Bulzoni 2005), "Possiedo la mia anima. Il segreto di Virginia Woolf" (Mondadori 2006), "Di vita si muore. Lo spettacolo delle passioni nel teatro di Shakespeare" (2010), "La figlia del sole. Vita ardente di Katherine Mansfield" (2012),...

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