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Descrizione


Darling ha solo dieci anni, eppure deve navigare nelle agitate acque del mondo in Zimbabwe. Darling e i suoi amici rubano guava, cercano di tirare fuori un bambino dalla pancia della piccola Chipo, e si aggrappano ai ricordi di Prima. Prima che le loro case venissero distrutte dalla polizia paramilitare, prima che la scuola chiudesse, prima che i loro padri partissero per lavori rischiosi all'estero. Ma Darling ha una possibilità di fuggire: ha una zia in America, così decide di viaggiare verso questa nuova terra in cerca della famosa abbondanza americana, ma solo per scoprire che le sue opzioni come immigrata sono terribilmente ridotte. L'esordio di NoViolet Bulawayo ha sorpreso pubblico e critica, ha fatto subito pensare ai grandi narratori che hanno raccontato l'esilio e le nuove patrie, da Zadie Smith a Monica Ali.
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Dettagli

2014
27 agosto 2014
265 p., Brossura
9788845277047

Valutazioni e recensioni

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Recensioni: 4/5
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giovanni
Recensioni: 4/5

‘We need new names’ è un romanzo bellissimo e molto interessante. È adatto soprattutto alle ragazze giovani (la stessa autrice ha ammesso di averlo scritto perché era alla ricerca di modelli di ispirazione per le ragazze giovani del ventunesimo secolo). Propone molti spunti di riflessione su diversi temi quali l’immigrazione, l’integrazione, la cultura pop e il senso di appartenenza.

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Recensioni

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Voce della critica

  Salutati dal "New York Times" come un fenomeno tutto nuovo, gli scrittori "neri, con radici africane, anche se cresciuti altrove, giovani cosmopoliti che scrivono in inglese" si sono imposti all'attenzione dell'editoria internazionale e sembrano destinati a sostituire o a sfidare la grande generazione degli scrittori della diaspora indiana. Non sono scrittori afro-americani, bensì africani cresciuti in America, o americani di origine africana abituati a viaggiare, a studiare all'estero; sono poliglotti e amano definirsi afropolitans, sebbene anche questa categoria venga contestata. Dinaw Mengestu (americano-etiope), Helen Oyeyemi (inglese-nigeriana, esordisce a 17 anni), Teju Cole (americano-nigeriano), Yvonne Adhiambo Owuor (keniana), Taiye Selasi (inglese con radici nigeriane e ghaniane, è anche un po' italiana) sono solo alcuni tra i nuovi talenti e Bulawayo non fa eccezione: nata in Zimbabwe ha studiato negli Stati Uniti, meritevole di prestigiose borse di studio, ha vinto numerosi premi letterari. Forse, come per molti scrittori indiani della generazione appena precedente, un valido incoraggiamento durante la loro formazione lo hanno fornito le scuole o i corsi di scrittura creativa, ciò che colpisce è il loro numero e il fatto che in maggioranza siano donne. Il suo romanzo racconta di un'adolescenza trascorsa in due paesi, di un'infanzia in Zimbabwe trascorsa all'aria aperta, con un gruppo di amici, un po' ingenui, un po' teppisti, che osservano senza comprendere nulla le rimozioni forzate, gli slum, il cristianesimo, la violenza che a ondate si abbatte sui bianchi, le elezioni politiche e il grande cambiamento che mai avviene. Indifferenti, ma anche indifesi, passano davanti al cadavere di una donna impiccata, entrano nella casa di due bianchi portati via con la forza, vedono partire gli insegnanti e i padri verso il Sudafrica in cerca di stipendi migliori. Le scuole chiudono, i padri ritornano malati di Aids. La prima parte del romanzo non si discosta dal modello del romanzo scatologico africano della tradizione, categoria ripresa recentemente da Ato Quayson, ghaniano, docente a Toronto. La seconda parte del romanzo riguarda l'adolescenza in America, il paese sognato, dove una zia accoglie la protagonista, Darling, a Destroyedmichygen. Qui, a Detroit, Michigan, la formazione negli anni giovanili si snoda fra normalità (la neve e il freddo e le strade vuote) e la trasgressione, l'avventura. Tuttavia, non vi è quasi niente di idealizzato, niente di bello: certo la musica, i cantanti, gli attori che piacciono ai giovani tengono compagnia, diventano modelli, eroi, star. Però l'America reale è deludente. Le pagine più significative del romanzo sono quelle dove all'improvviso vi è un "balzo" pronominale e si passa a un "noi" corale: "In America abbiamo visto molto più cibo di quanto ne avessimo visto in tutta la nostra vita. ... Che sorpresa l'America, all'inizio. Se il tuo corpo non ti andava bene, potevi andare da un dottore… Poiché non eravamo nel nostro paese, non potevamo usare la nostra lingua, dicevamo cose che non volevamo dire. Quello che volevamo dire davvero rimaneva dentro, intrappolato… Per i visti e i passaporti abbiamo supplicato, ci siamo disperati, abbiamo mentito, abbiamo strisciato, abbiamo promesso, abbiamo sedotto, abbiamo corrotto, qualsiasi cosa pur di uscire dal paese…Invece di andare a scuola, abbiamo lavorato… abbiamo stretto i denti, abbiamo infranto la legge e abbiamo lavorato… non eravamo più persone. Adesso eravamo clandestini". Quando l'emigrato diviene clandestino il sogno americano s'infrange. "La mia America", per la protagonista, diviene una sorta di discarica in cui si smistano lattine e bottiglie per la raccolta differenziata; lavoro che permette di pagarsi il college. Poi ci sono le pulizie nelle case private, dove si incontra l'anoressia: "Quando si prepara un piatto con cinque acini d'uva, un affarino rotondo e un bicchiere d'acqua scoppio a ridere. Lei si gira a guardarmi con aria confusa e io rincaro la dose. Cioè non riesco proprio a trattenermi. Muoio dal ridere. Perché signorina-voglio-essere-sexy, il punto è questo: hai un frigo pieno zeppo di cibo, quindi per quanto tenti di morire di fame, non saprai mai cosa vuol dire". A dire il vero tutti questi temi sono già stati trattati: per cominciare da Tsitsi Dangarembga, scrittrice e cineasta dello Zimbabwe, nel suo romanzo La nuova me (2007), da Anita Desai in Divorare, digiunare (2005) e da Kiran Desai in Eredi della sconfitta (2007). Ma forse ce ne siamo dimenticati, non abbiamo prestato ascolto a quelle voci, o non abbastanza, le storie di oggi ci ripropongono adolescenti lucidamente inchiodati a due mondi, due esperienze linguistiche, due nostalgie, due tradimenti: "Dimmi solo una cosa. Che cosa stai facendo in questo momento in un paese che non è il tuo? … Se è il tuo paese allora lo devi amare, viverci e non lasciarlo. Devi combattere a tutti i costi per il tuo paese… hai il coraggio di dirmi, con quell'accento idiota che non è il tuo, che il paese in cui sei andata non fa per te, che il tuo paese è questo…". Le storie di oggi sono prepotenti emblemi della nostra contemporaneità. Nota tanto interessante quanto allarmante è la cosidetta resilience delle donne che meglio si inseriscono nel tessuto sociale e culturale del paese ospitante mentre gli uomini più spesso soccombono. Zio Kojo, anche detto Vasco da Gama dal momento in cui si mette a guidare senza meta con la sua auto per ogni dove, come un navigante alla deriva, non fa altro che guardare i notiziari televisivi sulla guerra in Afghanistan poiché suo figlio è là a combattere e non se ne sa più nulla. Altro personaggio commovente è Tshaka Zulu che reca il nome altisonante del sanguinario re-guerriero, fondatore della nazione Zulu in età coloniale, e come quel mitico guerriero imbraccia l'assegai e si slancia verso il cielo come un aereo impazzito che cerca di decollare: la strada d'asfalto è piena di auto della polizia con i lampeggianti e le sirene spiegate da cui si levano le grida Butta l'arma! Butta l'arma! Sebbene non si tratti di un romanzo sperimentale, linguisticamente non riproduce in modo esasperato il gergo giovanile, anche se la narrazione traduce il punto di vista infantile prima, adolescenziale poi, della protagonista, la traduttrice ha pur dovuto risolvere qualche capriola stilistica, gergale e soprattutto ha dovuto curare una certa coerenza di registro e di tono, e assecondare le variazioni di umore della narrazione. Non è tanto il bilinguismo o il lessico a costituire problema, quanto piuttosto la sottigliezza dei mutamenti di umore, e un certo distacco asettico che talvolta emerge in totale contrasto con la situazione narrata. La traduzione restituisce molto accuratamente l'ironia divertita, la tragedia, l'amarezza, lo sgomento e tutta la gamma di toni che la voce narrante assume, assecondandone la tecnica dello straniamento che caratterizza quello sguardo sempre esterno, sempre un po' estraneo, un po' distaccato perché bambino o perché straniero, o perché lucidamente critico dell'Occidente: "Lo strano cagnolino, Titi, trotterella con una giacchetta di pelle rosa e una bandana gialla attorno al collo. … l'animale in questione ha una camera da letto, un letto rosa, un armadio e cassetti pieni di vestiti e guinzagli costosi".   Carmen Concilio

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Conosci l'autore

NoViolet Bulawayo

NoViolet Bulawayo (pseudonimo di Elizabeth Tshele) è nata e cresciuta a Bulawayo nello Zimbabwe e a diciott’anni si è trasferita negli Stati Uniti. Ha vinto il Caine Prize for African Writing 2011 per Hitting Budapest, racconto su una banda di bambini di strada in una baraccopoli dello Zimbabwe.Il suo primo romanzo C’è bisogno di nuovi nomi (2013) ha vinto il Premio PEN/Hemingway, il Betty Trask Award ed è stato selezionato per il Man Booker Prize, rendendola la prima scrittrice africana a ottenere questo riconoscimento.

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