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Le ipotesi di lavoro messe a punto dal prof. Joseph Davidovits mi hanno subito affascinato, per la serietà dell’approccio scientifico e per l’enorme duttilità interdisciplinare di cui l’autore ha dato prova nei trent’anni di elaborazioni e di verifiche della propria teoria. Molte approssimazioni, imprecisioni, molti luoghi comuni sono stati usati e diffusi da improvvisati detrattori o da approssimativi commentatori di queste ipotesi, sino dall’affermazione – apparsa su diverse riviste – che “Davidovits aveva trovato un capello incastrato nelle pietre della Grande Piramide”… il capello “fa notizia”, è vero, ma ciò che Davidovits individua sono alcuni filamenti o fibre di natura organica. Ben altro è lo spessore del lavoro svolto dal chimico francese. Si tratta, fondamentalmente, dell’unica tra le ipotesi sino ad oggi elaborate che consenta di pensare in modo razionale al modo di costruzione di quegli enormi edifici che furono le grandi Piramidi della piana di Gizah. Per chiunque sia abituato a progettare o a dirigere cantieri di lavoro, l’ormai tanto proclamata ed “ufficializzata” ipotesi delle rampe – di terra, di mattoni o d’altro materiale – non appare minimamente attendibile, per il semplice motivo che contrasta con ogni logistica di organizzazione del cantiere: non potrebbe neppure venire in mente ad una società dello spreco, come la nostra, tanto meno ad un mondo come l’antica civiltà dei Faraoni, che dobbiamo presumere disponesse di minori mezzi strumentali e di minori possibilità di spreco. Quella di Davidovits è una teoria estremamente affascinante e tutt’altro che “remota” dalla razionalità scientifica. L’autore non pone in discussione né l’epoca né i tempi di costruzione delle grandi piramidi, ma entra a fondo nel merito della loro “fattibilità” operativa: un elemento proprio dell’archeologia sperimentale, caratteristico della formazione tecnico-professionale, al quale altre teorie non riescono a fornire risposte.
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