Titolo: Campi, fabbriche, officine di Pëtr Kropotkin Editore: Edizioni Antistato Lingua: Italiano Numero di pagine: 238 Formato: Copertina rigida Data di pubblicazione: 1975 l Edizione: 1 Ridotta ed aggiornata Curatore: Colin Ward Collana Classici del pensiero anarchico n. 1 Descrizione libro N.B.La copertina è appena invecchiata. Se invece di abbandonare la gestione agricola della terra l’Inghilterra avesse favorito processi di produzione ortofrutticola di piccola scala sul modello degli orti nel circondario di Parigi, la strada verso la sovranità alimentare sarebbe stata tracciata. Questa è una delle tesi sostenute da Petr Kropotkin nel suo “Campi, fabbriche e officine” (edizione sintetica, curata e riveduta da Colin Ward nel 1974 e recentemente riproposta nel nostro paese dai tipi di elèuthera). Sono considerazioni che potremmo fare oggigiorno osservando lo stato del sistema agricolo attuale, basato sull’agroindustria; solo che arriveremmo in ritardo di oltre cento anni rispetto alle acute osservazioni dell’anarchico pensatore di fine ‘800. Kropotkin osservava il forte legame creatosi nella metà dell’800 tra la città di Parigi e i suoi sobborghi agricoli, nei quali migliaia di piccoli coltivatori sperimentavano la coltura in serra di ortaggi e frutta di ogni tipo. I contadini portavano i loro prodotti in città e ritornavano carichi di ottimo concime per nutrire e rinvigorire i loro terreni. Sì, era un’epoca in cui gli scarti fecali delle città erano preziosi e non venivano, come accade oggi, inquinati dall’aggiunta di prodotti di sintesi (e abbondantemente diluiti, per poi tornare a concentrarli attraverso la depurazione). Con entusiastica ammirazione Kropotkin snocciola i numeri delle produzioni per ettaro ottenute per le varie colture da questo sistema periurbano di produzione, che era in grado di garantire la sussistenza a migliaia di piccoli contadini e di nutrire una città che contava già oltre due milioni di abitanti. Il nostro mitico Petr si scaglia inoltre contro gli economisti suoi contemporanei, rei di sostenere a forza di menzogne come le piccole attività imprenditoriali stessero lentamente ma inesorabilmente scomparendo e come l’accentramento della produzione fosse l’unica soluzione per garantire lavoro e benessere diffuso. Anche in questo caso con meticolosità scientifica e basandosi su analisi statistiche di dati oggettivi, Kropotkin smonta la tesi imperante a quell’epoca, mostrando come le piccole officine di produzione costituissero ancora l’ossatura portante dell’economia anglosassone e delle altre nazioni dove la rivoluzione industriale andava diffondendosi. L’unica evidenza che notava Kropotkin era che “I paesi industriali non trovano clienti in numero tale da permettere loro di realizzare alti profitti”. Frase che sintetizza in modo chiaro ed univoco le cause della crisi industriale vissuta nel Regno Unito (e in larga parte dei paesi industrializzati) a partire dal 1875 e sino al crollo del biennio 1886-’87. Crisi della quale poco risentirono quelle comunità nelle quali la popolazione rurale affiancava al lavoro nei campi, quello condotto in piccole officine di produzione manifatturiera. Insomma, che il sistema capitalista di mercato avesse qualche problema lo si era capito già allora…. Eccola l’ultima tesi sostenuta in questo interessante saggio: la specializzazione del lavoro, e in particolare la separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale che è stata propinata come necessaria dall’accentramento della produzione si è dimostrata deleteria sotto molteplici punti di vista. Kropotkin sostiene infatti che ogni progresso tecnologico è stato possibile grazie all’apporto di uomini che univano a doti di buona manualità anche elevata capacità intellettiva e creatività. Proprio la creatività che, secondo Petr, è stata il maggiore sacrificio che centinaia di migliaia di uomini hanno dovuto fare nel mettere piede entro a grandi sistemi produttivi che chiedevano loro semplicemente di ripetere allo sfinimento una determinata operazione, solo quella. Insomma Kropotkin affianca ad un elevato ottimismo legato alle grandissime potenzialità di un sistema produttivo su piccola scala, territoriale e di comunità, un altrettanto grande pessimismo dovuto alle pieghe negative create dall’accentramento e dalla iperspecializzazione a camere stagne delle capacità manuali da un lato e intellettive dall’altro.
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