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Sicuramente la poetica di Dino Campana è da considerarsi tra le più intriganti e complesse della poesia italiana del 900. Il Poeta si addentra nell'esistenza con un occhio diverso e la realtà appare nella sua crudezza. Cadono i veli dell'inganno e ciò che è si dimostra della sua nudità. La sua geniale follia lo fa ergere a gigante rispetto agli altri coevi poeti. La difficoltà nelle interpretazioni non scoraggia il lettore, ma anzi lo avvince affascinandolo. Mai come in questo terzo millennio, la sua poetica è attuale. L'interpretazione che ne da Carmelo Bene è semplicemente fantastica. --<META>vittorio baccelli<META>--
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Un non-libro: un cofanetto doppio ed elegante in cui si trovano alla lettera allacciate, con tanto di nastro bianco, le poesie scritte da Dino Campana e poi dette da Carmelo Bene, che figurano in quest'ordine cronologico come i due successivi autori dello stesso dono. In effetti sono un dono e non un libro questi Canti orfici che inaugurano la collana Bompiani "inVersi" curata da Aldo Nove: il regalo di una poesia continuamente smarrita e riscritta, dimenticata in vita e resuscitata postuma, che è infine arrivata fino a noi grazie al lavorio incessante di entrambi i donatori. Chi lo riceve non sa davvero più chi ringraziare, sorpreso dall'equilibrio che si stabilisce fra il riconoscimento che si deve al poeta e la riconoscenza che si prova per l'attore. Nessuno può dimenticare né sottovalutare infatti il contributo che da tempo ha dato l'attore-critico Bene alla liberazione del poeta-folle Campana da un'emarginazione o un'invisibilità durata ben più di una vita; e questo ennesimo omaggio ne è l'ultima e davvero pleonastica prova. Questi "Canti orfici di Campana e Bene" contengono il dono vicendevole di un incontro fra voce della poesia e poesia della voce; una frequentazione lunga ma sempre straordinaria, visto che infine risolve il problema oggi pressoché insolubile della trasmissione della poesia. Anche se non lo si può dire, ognuno sa che non esiste (o non esiste più) un libro di poesia che riesca per davvero a farla arrivare all'attuale sordomuta platea dei lettori; così come è vero che i fin troppo numerosi dischi di attori e dicitori sempre meno fini, quando non sono indecenti, appaiono non solo deficienti nel comunicare ma insufficienti a contenere la poesia. Sono ormai decenni che si cerca di ibridare insieme la scrittura e il suono del verso, la visione dell'ascolto e l'ascolto di una visione poetica; e sono appunto decenni che si registrano continui fallimenti commerciali di produzioni che ripetono e ignorano l'errore culturale che toglie senso a tutte queste operazioni. Infelicemente dominata dall'imperativo democratico di far arrivare la poesia alla gente, ogni combinazione fra testo e voce, incarnata in decine di tentativi di audiolibri malriusciti e malvenduti, non segue l'obiettivo di innalzare il pubblico verso il vertice del godimento estetico, ma quello di far atterrare la poesia al livello degli altri consumi culturali. Il sogno degli editori si contrappone così al segno dei poeti. La poesia da obiettivo diventa ingrediente e scatena un'orgia pedagogica e/o terapeutica in cui si impegnano tutte le scuole dell'obbligo e tutte le televisioni di servizio. Autori che si imbariccano in attori e attori che si albertazzano in poeti sono i più frequenti e forse i più alti (si fa per dire) risultati di questo equivoco. Ora, se fra i poeti Dino Campana ha avuto fin qui la fortuna di essere assai poco scoperto ed esibito, fra gli attori Carmelo Bene è senz'altro l'unica eccezione che non confermi la regola. Non c'era bisogno di quest'ultimo dono per scoprire che la definizione di attore-poeta di Bene è sensata e fondata su una sensibilità e una capacità straordinaria. Non su una dote vocale o su un talento attoriale che ormai fa persino comodo riconoscere, ma su un livello di compenetrazione e competenza nel modo e nel mondo poetico che l'attore Bene volta a volta affronta. Dallo Spettacolo Majakowski (dunque dal suo primo spettacolo), si è realizzato in lui un connubio effettivo fra voce e poesia che ha dato successivi e sempre più perfezionati miracoli. Davanti alla poesia, mai l'attore Bene s'è perso nella garbata sudditanza liturgica al testo, ma ha sempre seguito la via di una rivitalizzazione sacrale del suo senso e suono, inseguendo e realizzando spesso una sorta di resurrezione scenica del poeta o almeno di quanto della sua persona è rimasto inscritto nei suoi versi. Nella storia dei suoi numerosi spettacoli-concerti, l'incontro con Campana è poi al centro di una svolta, per quanto riguarda le tendenze o le tracce di una identificazione fra attore e poeta: questa, se c'è, non è tentata più tanto dall'anima del poeta ma si immerge nel corpo dei suoi versi. È la materia attiva e fisica della poesia ciò che l'attore condivide e contende in scena all'autore. Così, dalla primitiva affascinante ambiguità, il rapporto tra Bene e la poesia passa a una scabra e forse più scostante precisione: se prima i ruoli dell'attore e dell'autore si provocavano a vicenda, adesso sono da tempo coniugati e riassunti nello stesso atto poietico. L'attore aumenta la sua rigorosa ammirazione del testo, ma intanto cresce come autore della sua parte di parola; parte che non è fatta di voce prestata, ma sempre più di voce che conquista per se stessa il verso. Con i versi di Dino Campana - già sulla pagina - Bene inaugura un incontro basato sul vicendevole scambio e su una rielaborazione tanto più evidente quanto più rispettosa: il suo processo è una gratuita ma indispensabile aggiunta al necessario e insostituibile prodotto del poeta. Con i Canti orfici di Dino Campana - arrivati poi in scena - Bene fonda un rapporto paritario di costruzione dell'incanto, riconoscendo ai versi del folle di Marradi la loro alta dote fonico-musicale e valorizzandone l'intenzione simbolico-metafisica: così Bene opera in vera sintonia più che in finta simbiosi, e collaborando alla messa in atto di una poesia che di fatto entrambi realizzano. Per chi conosce gli spettacoli di voce e poesia di Carmelo Bene, la trasformazione è graduale ma evidente: l'attore si lancia in primissimo piano sul fronte del possesso del verso, forse perdendo un po' di quella precedente possessione che caratterizzava i suoi trascorsi concerti fino al trionfale e indimenticabile Manfred di Byron e Schumann. Se questo era già vero a teatro, nel cofanetto appena edito e donato si segna un ulteriore passo in avanti. Un passo in più (e per molti palati senza orecchio si può star certi che si tratterà perfino di un passo di troppo!) che distanzia i Canti di Campana e Bene sia dalla letteratura sia dalla scena. Il testo e il compact disc della Bompiani non fanno un libro di poesia, e s'è già detto; ma tantomeno contengono effetto e voce di teatro. Anzi, la novità di questo libro-disco è forse più consistente e rivoluzionaria del voluto: ci colpisce (e in parte ci ferisce) non più la confusa equidistanza ma una lucida estraneità di quest'oggetto sia dal testo sia dallo spettacolo, come se la poesia, insieme scritta e detta, stesse finalmente e felicemente in piedi da sola. I versi di Campana detti da Bene hanno risuonato già molte volte in troppi teatri perché un pubblico ormai vasto non li conosca, e dunque non chieda di riconoscerli uguali a come li ha già visti e uditi. Il libro-disco ovviamente li ripete, ma una severa registrazione in studio è più fredda e più esatta, ed è tutt'altra cosa dalla gratificante ma morta memoria di un evento. Certo, testo e voce vanno saputi mescolare e regolare (Bene nell'introduzione raccomanda ad esempio che "il livello dell'audio sia molto brillante") perché l'accadimento della poesia si manifesti in privato, ma, proprio per raggiungere da noi e dentro di noi l'effetto più alto e migliore, è stato conveniente sbarazzarsi del fascino facile e infine precotto del teatro e affrontare la prova di una più nuda e più difficile magia: come quando si legge un libro che però non è un libro, come quando si ascolta un disco che però non è un disco. Il fatto è che, nella ricercata lontananza dal teatro e dalla pagina, questi Canti orfici stabilizzano una volta per tutte quegli obiettivi di "azzeramento della volontà dell'ascoltatore" e dell'imposizione di una "visione accecata" che hanno da tempo spinto Bene a produrre dischi e occuparsi di radiofonia. Sono dunque Canti ultimi questi, che non costituiscono un'ennesima proposta ma una definitiva soluzione; non hanno la funzione di tenere aperta una possibilità ma obbediscono al compito di chiudere un problema, andando magari oltre le attese del lettore-ascoltatore (almeno di colui che non ha ancora appreso a sollevare il proprio desiderio al di sopra del suo pigro indice di gradimento). In effetti allo spettatore, finalmente cieco, potranno mancare quei due gradi in più della scala mercalli che Carmelo Bene inevitabilmente raggiunge quando è in presenza e in dominanza del pubblico; dall'altra al lettore, finalmente stupido, mancherà la sua libertà di pasticciare fra i significati e di interrogarsi sui motivi della poesia di Campana. Nessuno dei due avrà più tempo e finalmente non avrà più ruolo critico, almeno per la durata dell'ascolto. In realtà, il lettore si accorgerà di essere in ascolto e l'ascoltatore sentirà di star leggendo il senso, in una beata confusione fruitiva. Forse solo Carmelo Bene sa aprire le parole al loro suono e subito richiuderle spingendo il senso verso la mente di chi ascolta: così, una pioggia ininterrotta di suoni provoca nell'ascoltatore distratto quella perfetta comprensione E forse solo Dino Campana ha finora messo a disposizione di Bene un testo non solo adeguato ma assolutamente bisognoso della sua operazione vocale e mentale, di accurato scavo di ogni senso e liberato volo di ogni verso.
recensioni di Giacché, P. L'Indice del 1999, n. 10
di significati che invano cercherebbe di far propri un lettore attento.
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