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Descrizione


Questo è un libro-intervista, anzi una vera e propria conversazione, condotta da due critici letterari di una generazione più giovani rispetto al poeta Umberto Piersanti. È possibile leggere il libro in almeno due modalità: innanzitutto è il percorso biografico di un poeta oggi ritenuto fra i più originali in Italia proprio per il suo legame con la tradizione, per la sua speciale idea di canto (appunto, il canto "magnanimo") e per il rapporto col paesaggio nativo. In secondo luogo, il testo è anche la testimonianza diretta di un rapporto fervido fra centro e periferia, le Marche e l'Italia, dove si susseguono i ritratti e le voci di tanti autori, da Paolo Volponi a Carlo Bo, ma anche il ricordo delle più classiche presenze del Novecento.
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Dettagli

2005
1 luglio 2005
160 p.
9788887418910

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davide
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Da consigliare soprattutto a chi non conosce Piersanti e la sua opera. Anche se il metodo del colloquio disteso e non serrato, sostenuto con i bravi Galaverni e Raffaeli, non ha consentito di raccontare tutto Piersanti. Il poeta d'Urbino ha ancora tanto da dire. La speranza è che lo faccia in una prossima prova.

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Voce della critica


“Una mattina di novembre dell’altr’anno si andava in macchina da Urbino verso Urbania per un convegno dedicato a Paolo Volponi. Parlando, mentre l’autosterzava sui tornanti, dentro il verde già screziato dei gialli e dei rossi autunnali, ci è venuta come in simultanea l’idea che se la città di Urbino è appannaggio dell’opera del grande romanziere, le terre circostanti, a partire dall’altopiano delle Cesane, lo sono invece e innanzitutto dei versi di Umberto Piersanti.”

Beati i poeti, quando trovano un critico capace di dare ascolto alla lettera del testo al di là di ideologismi preconcetti, di operare una sintesi del loro lavoro trovando le formule giuste, non prevaricanti, e capace perciò di orientare i lettori di poesia, oggi sempre più dispersi e inquieti, spesso smarriti, quando non traditi da una critica che si limita da troppi anni ad onorare l’esistente, ovvero i poeti sostenuti da una potente attività editoriale e autopromozionale. Due volte poi beato Umberto Piersanti, l’autore dei Luoghi persi (Einaudi 1994) e di Nel tempo che precede (Einaudi 2002), per aver trovato non uno ma due critici di qualità vera, giovani per giunta, benché da tempo noti per il loro lavoro di ricerca, come Roberto Galaverni e Massimo Raffaeli, ai quali si deve l’idea di questo splendido «colloquio» a tre voci intitolato (e titolo migliore – leopardiano nella sostanza – non si poteva trovare) Il canto magnanimo. Che si raccomanda ai lettori come uno dei libri più significativi di questi ultimi anni non soltanto per l’obiettivo dichiarato, ovvero illuminare fin dalle sue origini (il faut commencer par le commencement, osserva giustamente Raffaeli) l’opera – non solo poetica – di Umberto Piersanti (declinata nei suoi temi fondamentali: natura, amore, memoria), ma anche perché, finalmente, qui si torna a parlare di poesia – dopo decenni di ubriacature ideologiche, semiotiche, sociologiche – nella sua autentica dimensione di totalità e di verità.
Certo non si potrebbe dare lo stesso risultato se il poeta non fosse Piersanti; ma forse il problema della poesia contemporanea (e anche dei suoi scarsi lettori) risiede proprio nel fatto che si è andato costituendo negli ultimi cinquant’anni una sorta di canone fatto al novanta per cento di poeti minimalistici, informali, sperimentali, illeggibili per lo più, che hanno programmaticamente negato la bellezza e lo splendore della scrittura, l’intensità del verso, la sua immaginosa memorabilità. Che felicità, dunque, scoprire, attraverso l’intelligenza lucida e affettuosa di Raffaeli e Galaverni, ma anche attraverso la sensuosa trama affabulatoria di Piersanti, quelli che dovrebbero essere i princìpi fondanti di ogni scrittura poetica: la potenza immaginativa (senza la quale ogni riflessione, anche la più profonda, risulterebbe inefficace); una studiata tessitura musicale, che in Piersanti si fa «gusto di un suono ricco e ampio» (cui dovrà corrispondere una retorica adeguata alla complessità – aspra e sensuale – delle immagini); una memoria metrica (qui, com’è del resto consono alla natura della nostra lirica, essenzialmente endecasillabica); un «profondo senso delle cose», che per Piersanti significa immersione nella selvosa – a volte spinosa – materia del mondo naturale: una natura reale, realissima (linguisticamente connotata secondo la grande lezione pascoliana) ma anche mitica e profonda (pur senza, e la distinzione proposta da Piersanti è rilevante e necessaria, divenire dannunzianamente immaginifica). Anche le citazioni dei classici italiani (e in particolare della meravigliosa Aminta del Tasso e degli immensi, civilissimi Canti leopardiani) suona come qualcosa di anomalo nel panorama italiano contemporaneo, se si pensa che molti dei poeti nati dopo la guerra si sono formati su testi tradotti (soprattutto russi e tedeschi), nella quasi totale dimenticanza dei grandi maestri della tradizione italiana (per non dire greco-latina); donde (azzardo, ma non troppo) le derive stilistiche di tanta poesia dai toni prosastici, dai versi ritmicamente zoppicanti, che sembra già traduzione fin nell’originale (e gli esiti, poi, si vedono).
Le pagine più felici, da leggere quasi come un romanzo, sono forse quelle in cui Piersanti parla delle sue origini, della campagna urbinate (le sue Cesane, luogo reale e fantastico insieme: ma la percezione magica del mondo non è anch’essa – come ci hanno spiegato i grandi etnografi del secolo scorso – realtà?), dei suoi anni universitari, e soprattutto delle sue letture formative: «la collana grigia della BUR»; il libro sui giardini di Rosario Assunto (ecco un grande maestro, uno dei pochi del secondo Novecento, di cui dovremmo tornare a parlare); i sontuosi spagnoli (alla cui lettura – come giustamente annota Galaverni – forse invitava la lunga presenza urbinate di Carlo Bo); Cesare Pavese («un mito totale» per la generazione di Piersanti, come d’altronde per quella appena successiva); la linea poetica che da Leopardi porta a Montale; le vaste letture dei classici greci e latini, a cominciare dal Virgilio più intimo, bucolico e georgico. Quel che il lettore avvertirà, immergendosi in questa lunga conversazione, sarà insomma che la visione poetica di Piersanti non nasce da operazioni intellettualistiche e sperimentali, dall’angoscia fredda di un secolo che ha voluto recidere ogni continuità con il passato (o magari, e in fondo è la stessa cosa, che ha trasformato il passato in materia divagante, in chiacchiera psicanalitica) ma da una percezione del mondo, da una vitalità rustica e terragna che si fanno lingua, parola, suoni, metafore, immagini, memoria. Poesia, insomma. Correda il volume un’appendice (curata da Franca Mancinelli) comprendente una ricca bibliografia, articolata in sezioni, in cui si dà conto sia delle pubblicazioni di Piersanti (compresi i testi sparsi non raccolti in volume) sia dei principali articoli e saggi sulla sua vasta opera (poetica, narrativa, cinematografica) apparsi tra il 1967 e il 2005.

A cura di Wuz.it

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Conosci l'autore

Roberto Galaverni

È nato a Modena nel 1964 e vive a Berlino. Critico letterario e saggista, scrive per le pagine culturali del «Corriere della Sera». Tra le sue pubblicazioni: Nuovi poeti italiani contemporanei (Guaraldi, 1996), Contemporary Italian Poets («MPT», 1999), I luoghi dei poeti (Palomar, 2001), Dopo la poesia. Saggi sui contemporanei (Fazi Editore, 2002), Il poeta è un cavaliere Jedi. Una difesa della poesia (Fazi Editore, 2006), Poesie italiane 2017 (Elliot, 2018), P.P.P. Poesie Per Pasolini (Mondadori, 2022).

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