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Storia e cronaca, passato e presente, sacro e profano, vita collettiva e individuale si confondono e compenetrano, in questi versi densi di immagini e di pensiero, vaganti per una Roma concreta dell’oggi, nella sua toponomastica (Via Cairoli, Campo Marzio, il Celio, il Teatro Quirino, Porta Furba, Via Selinunte…), nei suoi bar, nelle basiliche, tra gli sfasciacarrozze e nei negozi eleganti, nei corridoi degli uffici ministeriali o nei cantieri periferici. La città trafficata e pulsante di chi la vive quotidianamente, onorandola o imbrattandola («Porta Maggiore di notte. / Via Giolitti con le sue mignotte», «gli operai esibivano fieri il copricapo di giornale», «un vecchio si distinse per bestemmia», «L’autista del 409 amava il cambio di marcia», «i vecchi passeggiano pettinati, rasati / per bene nella penultima finzione»), tra presenze fantasma di attori scomparsi, e gatti, piccioni, levrieri che si muovono tra le rovine. L’arte antica di Masaccio, Filippino Lippi, Solimena ha lasciato tracce nella pittura novecentesca di De Chirico, Guttuso, Schifano; la politica sporca dei «profittatori di sempre» trova un suo riscatto nella solidità pulita degli affetti domestici; le tombe dei martiri cristiani sono velate dalla stessa malinconia che incornicia le sepolture dei parenti più cari. Su tutto aleggia (mai macabro, e piuttosto ineluttabile, fatalistico) lo spirito del dissolvimento, di una fine a cui ogni esistenza, sentimento, gesto, oggetto è inesorabilmente destinata (i corpi di «Tiberio, Giuliano e Decio», come i mozziconi di sigarette abbandonati sull’orlo dei tombini, o come i peli di barbe e capelli scivolati giù nei lavelli: «Finite dove le rasature degli anni ’30?»). Tuttavia a questo «nulla / da cui veniamo e a cui siamo diretti» Roma, con i suoi millenni di storia, presta uno scenario di fascino particolare, in cui (come suggerisce il postfatore del volume, Raffaele Manica), «non è detto… se siano più morti i vivi o più vivi i morti».
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