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"Le notti erano buie, calde, con una pioggia fine. Nelle piccole finestre polverose luccicavano le deboli fiammelle delle lampade a olio abbassate e grandi, strane ombre strisciavano informi sulle pareti. Da qualche parte, in lontananza, le campane risuonavano cupe, chiamando alla Pasqua cattolica, e il loro suono riempiva di timore le case ebraiche isolate, quasi buie". La Bucovina evocata in molti di questi racconti di Josef Burg (classe 1912) ormai non esiste più: Czernowitz (oggi Tscherniwcy), la "piccola Vienna", celebre un tempo per le sue cinquanta sinagoghe, per i suoi caffè letterari, per la coesistenza di espressioni linguistiche diverse (russo, rumeno, tedesco, ebraico, yiddish), ha perso quasi completamente la propria componente ebraica e la propria fisionomia multiculturale. Non che il passato richiamato in vita, con accenti a volte nostalgici, da Burg fosse un'età aurea di tolleranza e prosperità; da uno dei suoi racconti apprendiamo che ai piedi dei Carpazi, agli inizi del Novecento, un povero ebreo alcolizzato poteva arrivare a giocarsi la moglie all'osteria, mentre gli si addensavano intorno memorie di un passato crudele (ebrei frustati a morte o costretti a fuggire dalle loro case in fiamme) e premonizioni di un futuro più crudele ancora. Burg eccelle però nel rendere la segreta vitalità che serpeggiava, come una melodia ossessiva, nel precario universo in cui si è formato: quando nelle sue vene "scorreva la gioia di creare" e un'intera generazione di giovani scrittori ebrei si accostava con entusiasmo rivoluzionario allo yiddish, lingua delle masse ebraiche diseredate. Indimenticabili sono soprattutto, nelle sue pagine, i ritratti dei maestri che lo hanno avvicinato alla poesia, come Itzik Manger (1901-1969), dai cui versi sembra guardarci un mondo perduto: "Pioggia sottile sui vetri, / rosso fiorire nella verde luce. / I miei occhi neri si riflettono nel calice di vino rosso".
Mariolina Bertini
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