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Capitan Cook, per esempio. Le Hawaii, gli antropologi, i nativi - Marshall Sahlins - copertina
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Capitan Cook, per esempio. Le Hawaii, gli antropologi, i nativi
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Capitan Cook, per esempio. Le Hawaii, gli antropologi, i nativi - Marshall Sahlins - copertina
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Descrizione


Davvero gli hawaiani credettero che capitan Cook, giunto nella loro isola nel 1779 con due grandi navi, fosse l'incarnazione di un loro dio, venuto dal mare per celebrare insieme a loro l'Anno nuovo? O piuttosto gli abitanti di quel lontano arcipelago erano troppo pratici, razionali e realistici per poter scambiare un capitano britannico per una divinità locale?È quest'ultima la tesi avanzata da Obeyesekere, un antropologo anch'egli nato in un contesto non occidentale, che ha di recente - e con forte carica polemica - messo in radicale discussione le tesi fin qui avanzate da Marshall Sahlins. In questo libro il grande antropologo risponde alle accuse con un piglio polemico appassionato e vibrante, che non cerca riparo dietro la sua pur indiscussa autorevolezza. La posta in gioco è infatti assai più alta di quanto non sia la rilettura dello specifico episodio della morte di Cook, e comprende interrogativi cruciali per l'intera disciplina: è possibile per degli antropologi occidentali descrivere adeguatamente la cultura di popolazioni non occidentali? È possibile davvero capire, da parte di persone esterne, «come pensano i nativi?».L'autodifesa di Sahlins si trasforma in un vero e proprio contrattacco: attraverso la riaffermazione del valore della storia e la sottolineatura del peso delle differenze culturali, Sahlins rivendica insieme la legittimità di un punto di vista «non realistico» da parte delle popolazioni hawaiane e la possibilità per l'antropologo occidentale di comprendere culture anche molto diverse dalla sua. Di là da ogni presunta omologazione, o al contrario da ogni pretesa impossibilità di dialogo, Sahlins difende dunque la legittimità stessa del punto di vista antropologico, l'aspirazione a capire «l'altro», senza annullarne o disconoscerne le differenze.

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Dettagli

1997
17 agosto 1997
303 p.
9788879892131

Voce della critica


recensione di Ronzon, F., L'Indice 1998, n. 3

Come nei collage surrealisti degli anni venti, capita a volte che accostando elementi apparentemente eterogenei si riescano a intravedere aspetti delle cose e della realtà non ancora esplicitati. E questo vale anche per i due libri qui al centro dell'attenzione. Anche se scritti in epoche differenti e in relazione a differenti contesti etnografici, una volta accostati tra loro è possibile infatti leggere entrambi come se fossero disposti intorno a una questione comune: in che modo culture differenti da quella "occidentale" si sono poste il problema del senso e del posto dell'uomo nel mondo? Al di là di questo riferimento alle antropologie native i due libri presentano altri due punti in comune: riflettono intorno a ciò che nella cultura occidentale viene usualmente etichettato come "religione" (e qui le virgolette sono d'obbligo dato il riferimento ad altre culture), e si presentano legati a critiche e a discussioni connesse alla questione del relativismo culturale (la possibilità o meno di adoperare i propri criteri di riferimento per comprendere e valutare i comportamenti di membri delle altre culture).
Con l'opportuna ristampa del libro di Marcel Griaule, uscito negli anni quaranta (ma le sue origini risalgono alla celebre spedizione etnografica Dakar-Gibuti degli anni trenta) e poi nella versione italiana per Bompiani nel 1968, siamo di fronte a un classico del pensiero etno-antropologico francese. Il testo ha goduto infatti di un'ampia fortuna: esempio per una vera e propria scuola di etnografia africanista dedita all'esegesi delle cosmologie locali, modello per ricerche di intellettuali africani legati ai movimenti postcoloniali di indipendenza nazionale, riferimento per storici dell'arte africana (e relative quotazioni sul mercato), oggetto di reinterpretazioni freudiane, fonte di ispirazione per artisti occidentali, stimolo alla creazione di un ampio flusso di turismo culturale ecologista e "new age", e perfino conferma di bizzarre letture cosmonautiche concernenti la frequentazione del pianeta terra da parte di "alieni" in epoche prestoriche.
Il libro rappresenta una delle prime opere che conferiscono piena dignità filosofica al pensiero e alle riflessioni sul mondo prodotte all'interno di culture altre, intese quali civiltà dotate di una propria storia e di tradizioni parallele, alternative, comparabili ma non riducibili nel loro senso profondo a quelle occidentali. Il discorso ruota attorno alla cosmologia e ai miti di fondazione narrati all'etnografo da Ogotemmeli, un vecchio saggio cieco Dogon dell'altopiano di Badiangara (Mali). Costruito in modo seducente, con uno stile fortemente evocativo ed esplicitamente narrativo, il racconto si snoda attraverso il lento cammino di iniziazione dell'etnografo ai vari gradi della saggezza religiosa locale: un'intricata rete di corrispondenze analogiche tra eventi e personaggi mitici, parti del corpo umano, elementi del mondo naturale, e oggetti e spazi architettonici quotidiani. Il tutto legato da un insieme di insegnamenti morali tali da rendere l'opera, nelle intenzioni dell'autore, una chiave di accesso a una visione del mondo dotata di una propria coerenza metafisica capace di fornire profondi insegnamenti anche alla cultura dell'osservatore europeo.
Alla rilettura di oggi molte appaiono le crepe e le distanze create dal tempo. Come è stato messo chiaramente in evidenza dai successivi "re-studies", numerose sono le critiche che è possibile muovere all'opera: l'eccesso di sistematicità e pervasività attribuito ai racconti del proprio informatore (a scapito delle loro lacune, della loro diffusione sociale differenziale, del ruolo svolto dal narratore), il limite ermeneutico della presentazione di un sistema cosmologico slegato dall'uso all'interno delle pratiche dei suoi portatori (del suo senso in relazione alla vita quotidiana, delle pratiche rituali a esso eventualmente legate), la mancanza di ogni riferimento al contesto storico in cui ha avuto luogo l'incontro tra Griaule e Ogotemmeli e ai suoi effetti (relazioni coloniali, presenza di missionari, influssi di culture e tradizioni limitrofe). Proprio in rapporto a questi "buchi" empirici ed epistemologici nell'interpretazione culturale, "Capitan Cook, per esempio", di Marshall Sahlins, può essere letto come ulteriore capitolo del medesimo genere di ricerca. Se il limite maggiore del lavoro dell'etnografo francese era la mancanza di un chiaro riferimento alle pratiche di vita concreta della comunità di riferimento (un "gioco linguistico", direbbe Wittgenstein, riportato senza nessun riferimento al suo valore d'uso), l'opera di Sahlins rimette invece al centro dell'attenzione le "pratiche" di vita legate ai sistemi cosmologici analizzati e, in particolare, le loro imprevedibili conseguenze in un contesto storico di incontro culturale.
Il libro di Sahlins si presenta come risposta alle accuse di "political incorrectness" mosse dall'etnoantropologo cingalese Obeyesekere ("The Apotheosis of Captain Cook. European mythmaking in the Pacific", Princeton University Press, 1992) alla precedente opera dell'autore ("Isole di storia", Einaudi, 1986), riprende e approfondisce le tesi relative all'incontro del 1779 tra il capitano Cook e il suo equipaggio con le popolazioni hawaiane e alla successiva uccisione di Cook, assimilato al dio Lono (divinità che svolge il ruolo di sacrificato rituale all'interno della cosmologia locale). L'autore scorge in questo episodio il carattere esclusivamente "locale" del senso umano degli eventi storici: una dimensione relativa non agli eventi in sé ma alle interpretazioni che ne danno le comunità umane. Il testo di Sahlins si presenta dunque quale utile ed equilibrata riflessione critica intorno alle difficoltà legate alla comprensione delle antropologie native.
Come interpretare il senso dell'uso pratico di una certa cosmologia, chi decide il senso di certe "pratiche" quando esse coinvolgono anche una cultura altra (la cui traducibilità non è mai in linea di principio automaticamente garantita)? Accanto a una "pars destruens" relativa all'uso dei documenti storici, basata su un raffinato gioco di argomentazioni e controargomentazioni, la "pars construens" del discorso di Sahlins, che riguarda il senso e le ragioni dell'agire umano, si basa sull'ipotesi di un'origine radicalmente culturale delle pratiche di vita e delle visioni del mondo delle varie popolazioni, in contrapposizione all'idea dell'esistenza di una razionalità pratica transculturale proposta da Obeyesekere. Una chiave interpretativa che enfatizza quindi il carattere pubblico, sociale e "comunitario" dell'agire e del pensare umano secondo una prospettiva disciplinare tipica del culturalismo statunitense, già fatta propria dall'autore in altri studi critici sulla razionalità economica e la sociobiologia. Nel libro appaiono dunque due ipotesi contrastanti che, in modo incrociato, i rispettivi antagonisti tacciano di etnocentrismo: Sahlins accusa Obeyesekere di attribuire ai nativi una "razionalità strumentale" tipica del pensiero illuminista, e Obeyesekere rimprovera Sahlins di attribuire ai nativi un'ingenuità e un pensiero mitico che sarebbero tipici dell'esotismo e del primitivismo occidentali. La "querelle" lascia il lettore in una curiosa sensazione di stallo: è facile pensare che culture diverse plasmino diversi comportamenti e interpretazioni del mondo, ma è difficile pensare allo stesso tempo che queste interpretazioni e comportamenti non individuino alcuni aspetti della realtà che "noi" attribuiamo al "senso comune" a causa della loro supposta autoevidenza e imprescindibilità pratica.
Al di là degli effetti spaesanti, per il lettore questa "impasse" presenta comunque un vantaggio: può servire a reinterpretare i testi di Griaule e di Sahlins in modo critico come due capitoli del complesso rapporto dell'etno-antropologia e dell'Occidente con i suoi "oggetti" di studio (al di là degli specifici contributi apportati al settore dell'africanistica e dell'oceanistica). La ricerca di Griaule può apparire un emblema della generale rivalutazione delle culture altre, non esente, come già ho accennato, da un certo idealismo ermeneutico e dall'utopica ricerca di purezza perduta (con relativa palingenesi culturale). Il testo di Sahlins rispecchia invece la contestata situazione postcoloniale contemporanea e le difficoltà che emergono quando un "oggetto" di ricerca, tradizionalmente muto, decide di parlare in prima persona e accosta la propria voce a quella dell'antropologo. A conti fatti, entrambi sono esempi delle ineliminabili difficoltà empiriche e teoretiche presenti in ogni opera di "traduzione" culturale.

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