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"Istupori del mondo" e "miracoli dell'arte": così vengono definiti nel 1674 i due monumenti equestri dei duchi Farnese (Ranuccio e Alessandro) oggetto di questo importantissimo studio. Sono due sculture che definiranno per sempre lo spazio "civico" della piazza di Piacenza in stretto dialogo col vicino Palazzo comunale: da celebrazione assolutistica e feudale del Principe ad "amatissimo segno dell'identità collettiva (pur essendo nati da una occasione, inizialmente, "effimera"). Il giovane artista che tra il 1612 e il 1629 si dedicherà a quest'opera fondamentale per comprendere a fondo la "dialettica del Barocco" nella quale ci guida Montanari, è il toscano Francesco Mochi: e sulla "toscanità" debitrice di un acuto sguardo retrospettivo ai maestri del '400 e del primo '500, si leggono in questo saggio pagine di grande intelligenza e chiarezza. Lo "stile manieroso" di Francesco -stigmatizzato da G.B.Passeri- diviene la chiave di lettura che serve all'autore per darci un ritratto profondo di "questo Lorenzo Lotto della scultura". Così, le due parole chiave per la comprensione del suo percorso artistico diventano eccentricità e perifericità. Con l'abituale uso magistrale delle fonti coeve e la padronanza raffinatissima della critica Montanari studia il percorso emblematico di Mochi facendoci commuovere (con il brano della lettera autografa nella quale Mochi dichiara la sua intenzione di compiere un viaggio "avendo avuto sempre pensiero vedere il cavallo di Padova avanti ch'io lasci fornito il mio": cioè il Gattamelata di Donatello) e tracciando un percorso 'alternativo' del Barocco "lontano anni luce da quello trionfante di Bernini"; radicato "in quella 'riforma antimanieristica' che si nutriva della tradizione fiorentina" di Donatello, Desiderio da Settignano, Giambologna, che gli permetterà di cogliere l'apice dei due cavalli, venendo però poi sopraffatto dall'ambiente competitivo romano, al suo rientro, e ricavandone una "qualche non piccola malinconia".
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