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Al contrario di Curzio Malaparte che in Cina ricevette una illuminazione, per Parise i cinesi erano soprattutto ignoranti, ideologicamente arroganti e auto-condannati all'isolamento. In particolare, rimase irritato e anche piuttosto incarognito dalla voglia delle autorita' cinesi di prenderlo in giro. Il cronista del Corriere non ne bevette una di queste sciocchezze di regime, ossia che 1) per i cinesi, Mao fosse quanto di meglio potesse capitare nelle loro vite 2) senza ideologia non ci sarebbe stato ne' presente ne' futuro e 3) che il popolo fosse immune da dubbi sulla bonta' assoluta e metafisica del marxismo cinese. I dubbi e le incertezze le avevano eccome, solo che non potevano dirlo, pena la loro esclusione personale e sociale. Perche' il regime esigeva obbedienza assoluta come un fascismo qualsiasi: e meno male che non poteva leggere le menti. Ma un popolo privato della capacita' di pensare, ragionare, astrarre liberamente va compatito, non sanzionato. Parise noto' come i cinesi provavano a vivere le loro vite al meglio possibile, ma ai loro ristrettissimi dominii privati ebbe poco accesso. Non era neanche convinto del loro acceso anti-americanismo: sotto sotto li amano gli americani, diceva, e sono attratti dalla loro cultura: e' solo che li temono. Questo contrasto tra complesso di superiorita' e di inferiorita' al tempo stesso, di nevrosi collettiva e aridita' del pensiero nasceva fondalmente dall'isolamento e da una grandissima ignoranza. Ma a parte un'occasione, Parise non senti' mai un vero odio nell'aria: era semmai una rassegnazione. O e' marxismo cinese o niente. Se gia' quest'ideologia non gli andava a genio da prima, il viaggio in Cina gliela fece proprio disprezzare.
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