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L'immagine della Spagna "imperiale" fra Carlo V e Filippo IV è dominata ancor oggi da una "leggenda nera" che ne identifica le sorti con la stagnazione economica, l'immobilismo sociale, la repressione religiosa e politica. Ricordiamo tutti la seicentesca Milano spagnola di Don Rodrigo e del conte Attilio, ricordiamo l'eloquenza del podestà manzoniano sul conte-duca che è una "volpe vecchia", "con quella sua testa, con quelle sue strade coperte, con que' suoi fili tesi per tutto". I saggi raccolti nel volume di Giuseppe Galasso, grande specialista di storia spagnola e napoletana, mirano precisamente a ridimensionare se non a capovolgere questa leggenda, tracciando un profilo moderatamente "progressivo" dell'impero su cui come si diceva allora non tramonta mai il sole.
L'applicazione del principio politico-giuridico che riconosceva uguale sovranità a tutti i domini della composita monarchia spagnola (no reconocer superior) permise a Carlo V e ai suoi successori di affermare la propria legittimità dinastica come un potere centrale gerarchicamente più elevato. Ed esso operò prima come guida e "strumento di pressione per mediare" e superare una crisi religiosa gravissima, poi per affermare gradatamente il ruolo dominante della potenza spagnola in Europa. È precisamente sulla natura "moderna" di tale progetto che il libro di Galasso insiste con energia, presentandoci Carlo non come l'erede della tradizione medioevale del Sacro romano impero, ma come "il primo dei grandi sovrani intesi a conseguire, su una salda base di potenza, l'egemonia continentale".
La posizione privilegiata della Castiglia e il fortissimo "ancoraggio" religioso della monarchia spagnola, pur salvaguardandone la laicità, gettarono le fondamenta di una progressiva "centralizzazione" decisionale e amministrativa. Questa, associandosi a un controllo crescente esercitato sull'aristocrazia, permise alla Spagna di recitare una parte di primo piano e di fungere da "pilastro portante nella storia della formazione dell'Europa", alla pari con la strategia anch'essa "imperiale" della Francia di Luigi XIV. Disegnando con mano sicura una simile prospettiva, lo storico non può negare che la politica spagnola fosse "di conservazione", ma sottolinea l'esigenza di un giudizio più sfumato: riconoscere "la double face conservatrice e dinamica" di una vicenda lunga e complessa significa non solo aprire un nuovo orizzonte sul siglo de oro, ma anche ricostruire in modo approfondito la memoria europea dell'età moderna. Finale incarnazione di questo progetto egemonico di grande respiro, negli anni trenta del Seicento, fu la politica del primo ministro di Filippo IV, il famoso conte-duca Gaspar de Guzmán y Pimentel. La vera "decadenza" della monarchia spagnola, ribadisce Galasso, non risale certo all'età gloriosa di Filippo II, ma solo al periodo successivo, segnato da una preoccupante crisi finanziaria e da una crescente "sclerosi" amministrativa che ridimensionarono il ruolo internazionale della Spagna. Il suo impero europeo e atlantico sopravvisse comunque nell'immaginario collettivo, con luci e ombre, confermandone per sempre il profilo di temibile potenza. Come diceva Bortolo a Renzo nei Promessi sposi, con parole qui opportunamente ricordate: "Si tratta della Spagna, figliuolo mio; sai che affare è la Spagna?". Rinaldo Rinaldi
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