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Ho scoperto quest'autore e questo magistrale racconto solo due anni fa, attraverso una bellissima riduzione teatrale, protagonista l'attore Silvio Castiglioni. Credevo che l'incanto delle parole mi venisse dalla bravura dell'attore, che sgrana in forma di monologo l'arco di una tragedia piccola e oscura, tutta racchiusa trai monti e le forre dell'Appennino Emiliano. Ma quando ho letto il libro ho provato lo stesso rapimento, doloroso e al tempo stesso incantato. D'Arzo racconta come si ara un campo, per solchi diritti, col giusto passo di chi sa quel che c'è da sapere, dunque non ha brama di apparire in alcun modo. Parla - miracolo che avviene in questo racconto come in pochi altri della nostra letteratura - per ineludibile necessità, con misura colma e tuttavia precisa, con un purissimo accento lirico, eppure con assoluta aderenza al vero, all'essenziale. E immagino che da qui scaturisca anche la sua maestria nel dirci le cose della natura, che non descrive, bensì osserva. D'Arzo è la crosta della terra, è l'uccello assiderato sul ramo, il gelo del torrente e l'abbaio dei cani, è tutte queste cose, come chiunque tra quelle abbia lungamente respirato. E nello scegliere di metterle su carta compie un movimento certo e fluido, talmente sciolto da ogni ambiguità - estetica e di senso - da incarnare un esempio di virtù letteraria profondamente commovente. Ogni singola parola è resa indispensabile dalla bellezza e intelligenza del disegno che le tiene insieme. Non c'è traccia del minimo artificio, tutto s'incarna con semplicità davanti al lettore, che entra senza sforzo nel segreto indicbile e umanissino di questa piccola, struggente storia, Credo che solo i padri della letteratura mondiale (i grandi romanzieri russi, francesi e inglesi) abbiano a tratti conosciuto questa perfezione. E mi domando come sia possibile che D'Arzo sia tanto misconosciuto nel suo paese.
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