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Anno edizione: 2018
Anno edizione: 2011
Anno edizione: 2018
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Incipit: "Il cartello recita "boarding home", pensione privata, ma io so già che quella sarà la mia tomba. E' uno di quei rifugi di emarginati dove vanno a finire le persone senza speranza. Malati di mente, per lo più. In realtà, a volte vi si trovano anziani abbandonati dalle proprie famiglie e condannati a morire in solitudine, affinchè non rovinino la vista ai parenti più fortunati, i trionfatori" ...e poco dopo: "Non sono un esiliato politico, Sono un esiliato totale". Sono solo due piccoli esempi della prosa di Rosales e della sostanza con cui è impastato il suo romanzo che forse è una semplice quanto spietata cronaca autobiografica lasciataci dall'a,, forse una metafora della condizione umana (...l'ennesima,certo, ma non bastano mai), forse un viaggio al termine della notte che alberga nell'animo umano. Non so; forse un po' di tutte e tre. Di sicuro so che quando incontri un libro come questo non lo dimentichi facilmente.
Recensioni
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Rarissimo aspetto positivo delle dittature è la fioritura di artisti e intellettuali dissidenti. Il pensiero non si può imprigionare, si può punire, provare a limitare, ma quando è fondato su basi solide, oltrepassa il mare, le lingue, le differenze di prospettive e di idee, la morte. Anche nella Cuba castrista della soppressione sistematica dei diritti umani e di annullamento di qualsiasi forma di opposizione non sono mancate simili voci, quando non apertamente dissonanti, almeno non allineate o comunque invise al potere. Guillermo Rosales apparteneva a questa schiera – rivoluzionario della prima ora, disse no alla svolta autoritaria di Castro – e la periodica riproposta, in varie edizioni, del suo La casa dei naufraghi (119 pagine, 14 euro), tradotto da Chiara Brovelli, è una bella notizia.
Il suo alter ego, William Figueras, figura centrale del breve romanzo, si definisce «un esiliato totale», in fuga da Cuba e da tutto ciò che rappresenta, con la speranza che l’America lo salverà. Gli States, però, non possono sottrarlo ai fantasmi della mente, quelli che lo strappano alla casa di una zia che inizialmente lo ospita a Miami, per poi condurlo in case di cura ai confini della realtà, disumani lager dove chi ha problemi psichiatrici è destinato ad affondare, non certo a rialzarsi. Malato di schizofrenia, condannato a una quotidianità disumana, scivola nella depressione. Una compagna di sventura, la diafana Francis dagli occhi dolci, rappresenterà l’unica discontinuità (assieme alla lettura dei poeti romantici inglesi) al gorgo di dolore, solitudine e infelicità che è la clinica dei matti.
Tetro e crudele il romanzo autobiografico di Rosales, non aggiunge enfasi non richieste a un nichilismo assoluto, ma asciutto, a una vita allo sbando, a uomini e donne soggiogati dal proprietario della pensione-clinica, Curbelo, e dal suo collaboratore, Arsenio. Basta la normalità di William e Francis, di chi sente delle voci, di chi deve «prendere ogni giorno quattro compresse di Etrafon forte», di chi sogna, si illude, di fuggire via, permettersi una casetta, guadagnare qualche soldo con un lavoretto. Non è questa l’America che attende William e Francis, pazzi ed emarginati, vittime di una sofferenza che non è facile immaginare. Rosales era come loro, un relitto umano che rimbalzava fra motel e ospedali psichiatrici, prima di suicidarsi a quarantasette anni, venticinque anni fa. Freddo e disperato, dotato di tanti buoni dialoghi, il racconto di Rosales è il documento di una vita travolta dalla Storia – anche se Castro fa la sua comparsa più che altro nei surreali incubi del protagonista – e dagli angoli più oscuri della mente. Un libro con cui fare i conti, che restituisce alla vita eterna il suo autore.
Recensione di Arturo Bollino
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