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Anno edizione: 2018
Anno edizione: 2024
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Ci ho provato con il mio primo Naspini, dopo averne sentito parlare tanto e bene. Ecco non fa per me, non so se questo romanzo in particolare, in cui c’è tutto di troppo, a partire dai personaggi (una miriade di esistenze e di macchiette), ma anche dalla lingua che spesso ricade nel vernacolo. Non so, l’ho trovato molto allungato, poteva darci una sfoltita l’autore. Non so, magari gli darò una seconda chance, sapendo che l’autore è molto versatile anche nei temi delle storie raccontate nei suoi romanzi.
Le Case: un borgo maremmano e le sue anime in pena, ognuna con il suo carico di sofferenza, rancore, povertà. L'autore dà voce ai pensieri degli abitanti, e la storia di ciascuno, anche se unica e personale, diventa un tutt'uno con quella degli altri, in un vortice di fango e disperazione. Perché Le Case è così: "ti mette al mondo e poi ti stermina". E allora sembra quasi che questi flussi di coscienza abbiano una funzione catartica, come a redimere (o giustificare) colpe ataviche prima che sopraggiunga la fine. Ma "per sciacquare la coscienza a questo posto non basterebbe la lava dell'inferno", e non c'è scampo per i suoi abitanti perché "la Maremma ha questo di tremendo: all'inizio si presenta con il muso bello, per entrarti nelle grazie. Poi non ti lascia più, mostrandosi per la belva che è ". E soprattutto non c'è rimedio per scrollarsi di dosso il destino che attende i personaggi: "Le Case è l'albero. I fatti della gente che ci abita dentro, i frutti marci". Voto 3,5.
Se siete stufi di un certo tipo di editoria contemporanea italiana fatta da borghesi, destinata a borghesi e incentrata su borghesi, questo libro fa per voi. Un affresco corale della provincia toscana che Naspini dipinge in maniera cruda e spietata ma da cui traspare un incredibile senso di amore e rispetto per i personaggi (abominevoli) raccontati. Non c'è un singolo racconto che non risulti incredibilmente sorprendente.
Recensioni
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Nell’ultimo decennio, “ombelicale” pareva diventato l’insulto peggiore per un libro, un’autore o un’intera, supposta, letteratura, la cui ampiezza era forse il prodotto dell’infornata di esordienti seguita al successo avuto da alcuni di essi a metà anni zero: difficilmente, infatti, un autore al primo libro va troppo lontano dal proprio ombelico (né ciò è per forza un difetto: il recente Maestoso è l’abbandono di Sara Gamberini è un esempio di narrazione ombelicalissima eppure valida); se è vero, allora, che la “bolla degli esordienti” nel frattempo è esplosa, apparirà normale che oggi, cresciuti gli autori e tornate le case editrici a diffidare degli esordî, sboccino opere che vanno nella direzione opposta: quella della creazione di mondi. Al di là del distopico in voga, rispetto a cui sono appena arrivate sugli scaffali due interpretazioni italiane di grande originalità, Il grido di Luciano Funetta e Miden di Veronica Raimo, questa primavera vede l’avvento di almeno due lavori in cui la costruzione di un universo con proprie leggi, e la ricerca di verità ulteriori attraverso la rappresentazione che si svolge al suo interno, è il dato centrale…
…romanzi come Le case del malcontento di Sacha Naspini, a cui l’autore grossetano arriva dopo una bibliografia all’apparenza disorganica – ma a volte, negli autori di talento, la colpa di ciò è di un campo editoriale non sempre in grado di assecondarne il percorso – e in cui riannoda i fili gettati con le sue prime opere: le atmosfere sono quelle dell’esordio L’ingrato, uscito nel 2006 per effequ, e dei due romanzi che gli hanno dato una prima notorietà nazionale – I Cariolanti e Le nostre assenze (Elliot 2009 e 2012) – ma il respiro è ben diverso: quella che viene disposta nell’immaginario, e oltremodo arcigno, borgo maremmano delle Case è infatti una grandiosa partita a scacchi – di più: a Kriegsspiele – in cui il gioco di caratteri ha dell’universale, oltre che dell’abissale: la dimensione locale viene trascesa, sublimandosi in un assoluto dove le suggestioni ancestrali si fanno strumenti atti a raccontare una disperazione e una rabbia tornate a governare la coscienza collettiva del paese…
Vanni Santoni
“Where are Elmer, Herman, Bert, Tom and Charley
The weak of will, the strong of arm, the clown, the boozer, the fighter?
All, all, are sleeping on the hill”
E. Master Lee, “Spoon River Anthology”
Il romanzo di Sacha Naspini inizia con una mappa: la riproduzione grafica del paese di Le Case, poche anime abbarbicate sul costone di roccia che guarda la distesa infinita della Maremma e verso l’orizzonte scorge il mare. Un paesello che sembra “uno scarabocchio del Signore” più che un progetto divino, per citare uno dei suoi abitanti. I protagonisti del romanzo sono proprio loro, gli abitanti, che si presentano e ci presentano non solo la loro vita ma, come in tutti i piccoli borghi che si rispettino, anche la vita di un compaesano.
Il lettore si addentra così per le vie di Le Case, preso per mano ora da un Divo Valenti, poi da un’Adele Centini o da un Emilio Salghini, il medico del paese, e comprende, dopo un momento di smarrimento inziale dovuto a questa moltitudine di voci, (per le prime cento pagine me lo sono chiesta più volte “ma cosa mi vuole raccontare il Naspini???”) che questa narrazione corale non è un giro turistico per un borghetto dimenticato nella profonda Maremma. Questa moltitudine di voci, pronte a smascherare la verità del narratore precedente, racconta al lettore come Le Case sia un mostro che pare dormire ma in realtà lavora nelle sue viscere più profonde, generando ipocrisie, tradimenti, omicidi, scambi di persona e bugie. Le Case è come una scacchiera e i suoi abitanti sono pedine che credono di muoversi autonomamente ma restano tutti incatenati gli uni ai destini degli altri. Ogni narratore ci viene presentato insieme al lavoro che svolge o al ruolo che ricopre così che l’orrore del lettore, che vede squarciarsi il velo dalle stesse parole di chi commise o commette tutt’ora atti raccapriccianti, sia amplificato. Il ruolo del prete viene dissacrato da ciò che egli fa, così come pure il medico, la vedova, il contadino, la zitella: non c’è un’anima a Le Case che non sia colpevole di qualcosa. Eppure tutti si preoccupano del ritorno di Samule Radi, dallo stesso autore presentato come “il mostro”. Questo è ciò di cui tutti parlano, che scuote Le Case dall’apparente torpore dettato da noia e normalità: perché Samuele è tornato? L’autore ci rivelerà il mistero solo nell’ultimo capitolo, proprio grazie alla voce narrante di Samuele e il finale non sarà certo quello che ci si era aspettati.
Alla me lettrice resta in testa la frase marzulliana del “la vita è un sogno o sono i sogni che aiutano a vivere?”. Può Le Case essere un sogno (o un incubo) e i suoi abitanti la versione imbruttita della nostra società, con i vizi e i piccoli sotterfugi che, se andiamo a scavare, troviamo sepolti non solo in un borgo dimenticato della Maremma? Oppure è la rievocazione nella memoria dell’autore di un luogo realmente esistito e legato al suo passato in cui i vari Divo, le Giovannone e i Salghini si riconosceranno in tutti i loro pregi e i loro difetti?
Per scoprirlo, cari lettori, dovrete farvi prendere per mano da Naspini e dai suoi personaggi e accompagnare in questa passeggiata, di casa in casa, di personaggio in personaggio: una via crucis personale in cui ciascuno si libera dei propri segreti e affida le proprie colpe a chi legge. E se mentre passeggiate sentite, come me, la voce di De Andrè che canta di personaggi lontani, presi in prestito da un altro autore, la magia di questo romanzo vi avrà conquistati.
“Dove se n’è andato Elmer che di febbre si lasciò morire
Dov’è Herman bruciato in miniera.
Dove sono Bert e Tom il primo ucciso in una rissa e l’altro che uscì già morto di galera.
E cosa ne sarà di Charley che cadde mentre lavorava dal ponte volò e volò sulla strada.
Dormono, dormono sulla collina dormono, dormono sulla collina…”
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