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Libro duro e crudo che descrive la vita in carcere di un ergastolano, prima la narrazione verte su un sequestro di persona e del rapporto con la rapita da parte del protagonista e dopo si passa alla descrizione minuziosa e maniacale delle giornate in carcere, in quanto il personaggio principale ammazza una guardia e il livello di prevenzione su di lui aumenta. L'occhio cinico del narratore sa cogliere tante sfumature e vicissitudini, che solo chi vive certe esperienze può esternare. Concludo estrapolando alcuni passaggi che mi hanno colpito, la reazione dei familiari dei reclusi durante i colloqui, soprattutto quella dei bambini(pag 117): ...""alcuni bambini rifiutano di sedersi sulle ginocchia di papà, perché sono convinti che chi è rinchiuso lo faccia apposta a stare lì, a non tornare. Ma si risolve facile. Basta dire: Prova ad aprire la porta. E i bambini si alzano, vanno, trafficano, battono, e finalmente capiscono che la porta del carcere è impossibile aprirla"".. le lacrime dei reclusi(pag 125) ...""ci sono prigioni dove le guardie sono obbligate a controllare se ci sono lacrime sul cuscino e poi fare rapporto, perché se uno piange troppo lo mettono sotto sorveglianza, per evitare che si ammazzi , oppure gli propongono di fare l'infame. O tutt' e due le cose. E' uguale. Comunque da noi, grazie a Dio, non è così. Da noi le lacrime le controllano solo i concellini. E se sono amici veri si preoccupano x te, se sono degli stronzi lo raccontano a tutto il carcere"".. Nessun tono giustificatorio da parte del protagonista , solo una presa di coscienza profonda di quella che è la vita da carcerato. Per riflettere
Storia terrificante narrata in prima persona da un senza nome, un "captivus", un ergastolano in cella di isolamento, inchiavardato senza scampo e remissione all'interno di un mondo di cattivi, dove tra carcerati e carcerieri scorre uno stige infernale di odio e brutture, di sevizie e vendette atroci, ma anche di reciproca dipendenza emotiva. Torchio narra con un pathos privo di retorica, e con una lucidità che sa farsi partecipazione empatica, la vicenda di un uomo che dopo un'infanzia e un'adolescenza normale ("I miei hanno sempre firmato il diario e controllato i compiti. Messo la merendina in cartella") viene catturato a venticinque anni per aver sequestrato una donna, madre di due figli, e dopo due anni di carcere ammazza la guardia che lo scortava, guadagnandosi la "fine pena mai" in un buco di due metri, buio, gelido, con una latrina come unico suppellettile. Racconta la prigione, descrivendola analiticamente nella sua struttura interna ed esterna. Racconta i secondini, abbrutiti, rabbiosi, frustrati fisicamente e intellettualmente. Le umilianti perquisizioni fisiche e nelle celle, il vitto vomitevole, il silenzio tombale o le urla assordanti, la merda e il sangue, le ribellioni e i pestaggi, i commoventi e imbarazzati colloqui coi parenti, gli amori fittizi, i rimorsi e le nostalgie, i suicidi e i processi. "Il carcere non serve a restituire al mondo. E' fatto per chiudere, coprire, cicatrizzare." Se si può trovare un limite a questo romanzo, peraltro interessante e meritevole, è quello comune a molta narrativa italiana odierna: cioè l'insistenza a far esprimere il protagonista in prima persona, con la stessa sensibilità macerata di un seminarista, con lo stesso eloquio raffinato e la consapevolezza culturale di un intellettuale di radio3, anche quando si tratti di un pluriomicida, di un drogato all'ultimo stadio o di un semianalfabeta. Troppa empatia, insomma, o troppo imbozzolamento nel proprio io travestito in altri panni.
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