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"La 'ripetizione' paziente e sistematica è il principio metodico fondamentale. Ma la ripetizione non meccanica, materiale: l'adattamento di ogni principio alle diverse peculiarità, il presentarlo e ripresentarlo in tutti i suoi aspetti positivi e nelle sue negazioni tradizionali, organizzando sempre ogni aspetto parziale nella totalità. Trovare la reale identità sotto l'apparente differenziazione e contraddizione e trovare la sostanziale diversità sotto l'apparente identità, ecco la più essenziale qualità del critico delle idee e dello storico dello sviluppo sociale".
Questo suggerimento metodologico, affidato da Antonio Gramsci ai Quaderni del carcere, dovrebbe ispirare ogni seria vocazione educativa nella situazione presente, in cui ci si chiede (ahimè) se la lettura dei classici non rappresenti per i giovani un "dovere" troppo gravoso, un'obbligata "concentrazione" al di sopra delle loro forze. L'istituzionale metamorfosi dei programmi accademici in frammentari programmi di liceo, nei casi migliori in "pillole di erudizione spicciola", richiederebbe appunto, come critico adeguamento, ma anche salutare antidoto, una gramsciana, e paziente, passione dell'analisi ripetitiva.
A tale pio desiderio corrisponde, con perfetto tempismo, l'ultimo libro dell'italianista e cinquecentista Amedeo Quondam. Ottimo esempio di ricerca scientifica che si presenta come divulgazione "alta", il volume ha l'impianto, l'esemplare chiarezza e anche l'umiltà di un ideale corso universitario. L'autore, che si definisce "neofita profano" nel campo delle armi e delle armature, ci presenta in dettaglio la straordinaria armatura per cavallo e cavaliere confezionata fra il 1562 e il 1564 dal fiammingo Eliseus Libaerts per Erik XIV re di Svezia (ora a Dresda, nella Rüstkammer dello Zwingerhof). Allarga quindi la prospettiva alla storia degli armamenti nel Rinascimento europeo, esaminando la nascita dell'"armatura cerimoniale" come oggetto estetico di lusso, collegato alla trasformazione del medioevale "cavaliere" nel moderno "gentiluomo". Infine analizza nei testi letterari, nei repertori mitografici, e nei documenti figurativi (incisioni, arazzi, cicli pittorici), la diffusione cinquecentesca del mito di Ercole, che rappresenta il nucleo iconografico centrale e più ricco di significati della nuova figura sociale.
È in quest'area interdisciplinare un po' "stravagante" per un "italianista", fra storia, e letteratura, e storia dell'arte, che Quondam sviluppa la sua scrittura didattica: attingendo ai contributi specialistici degli "esperti", fornendo informazioni di base sugli strumenti bibliografici impiegati di volta in volta (egli spiega, per esempio, che cos'è Le peintre graveur ossia "il" Bartsch), presentando in modo vivace le schede erudite (come quando riassume la biografia di Eliseus Libaerts). Il risultato è un repertorio sulla cultura cinquecentesca offerto a un pubblico ampio, programmaticamente e gramscianamente ripetitivo ("ridondante", dice l'autore) per approfondimento critico e sincero interesse pedagogico.
"Innamorato di un'armatura", Quondam cerca innanzitutto di riprodurre a parole il proprio oggetto, come ogni appassionato critico che ha sempre qualcosa del Pierre Menard borgesiano. Lo dimostrano le particolareggiate descrizioni delle immagini accumulate sull'armatura, confrontate allo splendido apparato fotografico del volume che quelle stesse immagini documenta fedelmente: "Oro del fondo finemente cesellato all'agemina (...) e i rilievi a sbalzo in metallo grigio". L'innamoramento, tuttavia, non si arresta all'individualità dell'oggetto, ma procede per successive generalizzazioni, poiché "la comunicazione figurativa moderna esplode su ogni supporto (miniatura, pittura, arazzo, scultura, ceramica, mobilio eccetera)", formando "in termini progressivamente uniformi un codice produttivo sempre più omogeneo". I temi erculei e le allegorie mitologiche dell'armatura di Libaerts, infatti, sono quelli di tutte le armature, di tutta l'arte e la letteratura cinquecentesca, dall'Italia all'Europa, in una vertiginosa moltiplicazione e ripetizione che costituisce il repertorio del classicismo come riproduzione della pristina forma degli antichi.
Di questo repertorio connesso alla moderna figura del "gentiluomo", a cui fanno capo un'"etica convenzionale del sapere vivere in società" e un "criterio del 'giusto mezzo'", una "regolata institutio " umanistica e un'estetica della "sprezzatura" e della "grazia", Amedeo Quondam è un esperto conoscitore nell'ambito degli studi storici e letterari. Proprio a due testi fondatori del sistema, Il libro del Cortegiano di Baldassar Castiglione (1528) e La civil conversatione di Stefano Guazzo (1574), egli ha dedicato eruditi commenti. Anche in Cavallo e cavaliere, così, la fascinazione iniziale per l'oggetto che troneggia nella Rüstkammer di Dresda si proietta su un orizzonte sempre più ampio. L'armatura di Erik XIV si allontana e viene in primo piano uno sfondo popolato di figure, storie e "cerimonie" tutte simili, poiché omologate dal rinvio al medesimo "paradigma classicistico" e sociale: quello di una moderna aristocrazia e del "principe" che la rappresenta sullo scenario internazionale. È allora il complessivo quadro storico cinquecentesco a interessare in ultima istanza il critico (Anversa, i Paesi Bassi, la Svezia, l'Inghilterra, più tardi la Sassonia), parallelamente a quella "comunità" dei gentiluomini che forma il vero tessuto culturale e sociale dell'Europa di antico regime. Non a caso l'autore, per esemplificare anche la parte del cavallo accanto al cavaliere, cioè l'economia e l'estetica equina "nel sistema del classicismo", accenna rapidamente a uno scritto pionieristico, ma anche ambiguo e fortemente individualizzato, come lo smilzo trattatello De equo animante di Leon Battista Alberti (1443); si sofferma però soprattutto, con mirabile competenza, su "un librone di mille pagine" firmato da Pasquale Caracciolo e intitolato appunto La gloria del cavallo (1566). È insomma il catalogo enciclopedico come perfetta figura del modello classicistico, la tipologia culturale più che il singolo oggetto artistico, a indicare l'orizzonte d'interesse di questo saggio sull'"armatura come seconda pelle del gentiluomo moderno": la singolarità dei manufatti, così, sfuma, programmaticamente, nella descrizione del codice.
Nel volume non mancano pagine di analisi più ravvicinata, spesso associata a nuovi spunti interpretativi: come quelle che individuano in un ciclo di incisioni del fiammingo Cornelis Cort la fonte diretta delle immagini sull'armatura di Libaerts; o quelle dedicate al romanzo in prosa del ferrarese Pier Andrea de' Bassi Le fatiche de Hercule (1475). Sono pur sempre le similarità, tuttavia, a prevalere sulle singolarità e le analogie sulle differenze: come quando il critico presenta un'immagine distanziata e riassuntiva dell'Umanesimo quattrocentesco, nei termini di un paradigma pedagogico classicistico (gli studia humanitatis) consegnato "al nobile cavaliere" come nuova "identità culturale" e sociale ("Il lavoro degli umanisti è tutto qui"). La diagnosi, ovviamente, è corretta, ma sceglie di guardare l'Umanesimo da un punto di vista futuro per darne un'immagine unitaria, omogenea e del tutto funzionale: sceglie insomma di non rilevare le contraddizioni o gli esperimenti periferici, privilegiando invece le più generali "dinamiche del processo di costituzione della modernità".
Il tono critico più profondo della ricerca di Quondam è appunto la volontà di unificare e non distinguere, di accomunare e non separare. Si spiega così nel suo saggio, la costante presenza dell'"architesto europeo" di Castiglione e la posizione propriamente minore di Niccolò Machiavelli (Il principe, ricorda l'autore, uscì postumo "solo nel 1531"). Il fatto è che la tipologia dominante, di cui qui si parla, fa riferimento al Cortegiano, mentre nella nuova letteratura italiana di primo Cinquecento il segretario fiorentino ha davvero un ruolo marginale: all'utopia machiavelliana di un riscatto politico e militare dell'Italia, Quondam sostituisce emblematicamente (con Castiglione) la "miglior forma" di un modello classicistico che trionfa sul piano separato dell'etica e dell'estetica.
È quest'Italia paradossalmente trionfatrice, come luogo di elaborazione di un canone culturale, che emerge da Cavallo e cavaliere: un'Italia e un Rinascimento lontani da ogni contraddizione e da ogni innamoramento troppo singolare, lontani da ogni forma inquietante di "letteratura minore", estratti "in curiosità di conoscenza" (come da un cappello a cilindro) dall'affascinante, ma "tutt'altro che singolare", Prunkharnisch für Mann und Ross di Dresda. Un'Italia e un Rinascimento come "genealogia" dell'Europa moderna.
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