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recensione di Lazzari, T., L'Indice 1993, n. 7
Paolo Galloni ha studiato gli atteggiamenti culturali dell'aristocrazia medievale attraverso l'analisi del sistema di valori e di simboli che essa connetteva all'attività venatoria. Un lavoro nel quale la ricerca storica si coniuga all'indagine antropologica, dato che nell'esercizio della caccia e nei suoi rituali traspaiono istanze fondamentali del vivere sociale: "la guerra, il potere, la sessualità, l'iniziazione e la solidarietà tra maschi". Ricordando come il ceto aristocratico che si affermò nel medioevo traeva le radici della propria affermazione sociale dall'esercizio della forza fisica, in guerra così come nell'esistenza quotidiana, Galloni riesce a ricostruire in modo vivace quale funzione avesse la caccia nella vita di un guerriero: esercizio meno cruento e pericoloso della battaglia, l'attività venatoria assumeva un valore propedeutico nell'educazione dei giovani, così come costituiva un utile esercizio nei periodi di inattività di cavalieri. La caccia era assai apprezzata dall'aristocrazia medievale perché ben si prestava alla trasmissione e all'esaltazione di valori fondamentali per un ceto militare. Confrontando testimonianze di età medievale e di età romana, Galloni dimostra come la caccia non sia di per sé portatrice di valori bellici ma come sia invece la cultura sociale del tempo a caricarla di significati guerrieri: infatti, mentre ad esempio in età romana la caccia al cinghiale veniva consigliata nei periodi più caldi dell'anno, quando l'animale era meno pericoloso e il terreno di caccia, la boscaglia, era più agevole per gli uomini, nell'alto medioevo venivano predilette le battute autunnali e invernali rese rischiose dal terreno, scivoloso per le piogge, e dall'aggressività delle bestie per le quali l'autunno è il periodo degli amori. Questi uomini dalla mentalità guerriera trovavano dunque piacere nell'affrontare l'animale quando questo era maggiormente pericoloso e disdegnavano per lo più armi da lancio, prediligendo invece quelle che comportavano un contatto diretto con la preda, uno scontro corpo a corpo. La forza fisica, il coraggio, la destrezza qualità proprie dei combattenti che la caccia mette alla prova ed esalta. Anche il frutto dell'attività venatoria la selvaggina, si carica di simboli in questo contesto: dimostrare un insaziabile appetito per la cacciagione arrosto significa aderire anche con i comportamenti alimentari alla mentalità della casta guerriera dominante. L'atteggiamento dei monaci e dei penitenti è in tal senso assai indicativo: il rifiuto dell'alimentazione carnea comportava un'esplicita negazione di un modello sociale e culturale che faceva dell'esercizio della violenza il cardine del proprio sistema di valori. Si accenna infine ai cambiamenti che le pratiche venatorie subirono parallelamente alla trasformazione dell'aristocrazia medievale: alla caccia praticata nelle foreste, gravida di pericoli e di rischi fisici, si sostituì l'esercizio venatorio in una condizione ambientale protetta, in riserve; una trasformazione significativa se la si accosta al cambiamento di una classe dirigente che, nata e impostasi con la forza, voleva in seguito continuare a manifestare i comportamenti che l'avevano distinta, svuotati ormai di contenuti sostanziali ma forti per una carica simbolica, manifestando così un grado notevolissimo di autocoscienza sull'origine violenta del proprio potere.
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