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recensione di Chessa, J., L'Indice 1997, n. 6
Il sottotitolo del libro, "Diari 1988-1991", è al contempo esatto e sviante. In questo volume, pubblicato postumo in Francia un anno dopo la sua morte, Serge Daney procede in maniera frammentaria e cronologica; con la scrittura e il punto di vista propri di un diario associa a capitoli composti di considerazioni strettamente personali riflessioni critiche sul cinema passato e contemporaneo, a volte in forma tipicamente diaristica, in pagine con la precisazione della data di redazione, a volte in capitoli dedicati interamente a film, ad autori o ad argomenti inerenti la sola attività di critico, come "La sconfitta del pensiero (critico)" e "Il periodo non leggendario dei Cahiers". Eppure "Il cinema, e oltre" può essere considerato a tutti gli effetti un saggio sul cinema, l'acuta definizione di un pensiero critico fatto di un'instancabile ricerca della verità in ciò che esiste di più falso (il cinema) e di una posizione morale nella lettura dei film. Il cinema diventa una questione principalmente morale e il discorso sul punto di vista (fisico) dello spettatore, essenziale: "Quando scrivevo su "Lo squalo", mi ricordo che ero turbato dal fatto che Spielberg metteva la macchina da presa un po' al posto del pescecane, un po' al posto del bambino. Non ne aveva il diritto (mi dicevo), eppure sapevo che se la macchina da presa avesse assunto uno solo dei due punti di vista il film avrebbe perso di efficacia".
La formazione di Daney s'inserisce nella grande tradizione francese - da Rousseau a Rohmer - di pensatori della morale, attraverso i primi "choc necessari" (vedi "Lo sguardo ostinato", Il Castoro, 1995; cfr. "L'Indice", 1995, n. 9) di "Le sang des bêtes" di George Franju e soprattutto di "Notte e nebbia" di Alain Resnais, mostratigli all'epoca del liceo dal professore di letteratura Henry Agel, fino all'assunzione di alcuni "assiomi su cui non si discute", come la recensione di Jacques Rivette del film "Kapò" di Gillo Pontecorvo - che Daney si rifiutò sempre di vedere -, in cui viene applicata alla lettera l'affermazione di Godard: "Le carrellate sono una questione morale". Divenne redattore capo dei "Cahiers du Cinéma" in un "periodo non leggendario" (1973-80), in cui della redazione dei "Cahiers gialli" della fine degli anni cinquanta (il periodo leggendario) non rimaneva quasi niente, se non "la convinzione che il cinema fosse qualcosa a cui valeva la pena di pensare e di pensare profondamente".
La "generazione Cahiers" di Daney è lontana da quella degli autori della Nouvelle Vague, che sono però i modelli di riferimento più immediato - in particolare Godard, sicuramente il personaggio più citato di tutto il libro - e i mediatori di una riflessione critica sul cinema dei "maestri", da Renoir a Rossellini, da Hitchcock a Hawks. Diverso è anche l'atteggiamento di Daney nei confronti del fare materialmente il cinema, una possibilità mai considerata seriamente e soprattutto mai sentita come necessità; troppo importante la critica, troppo pesante l'eredità della Nouvelle Vague. In comune coi Rivette e i Godard, la stessa alta concezione del ruolo della critica - cinematografica, ma non solo - all'interno della società, che ha nel pensiero di André Bazin, co-fondatore dei "Cahiers" con Jacques Doniol-Valcroze, il punto di partenza e l'influenza teorica maggiore. "Il critico rappresenta dunque gli interessi di chi 'fa' presso coloro che non fanno. Una specie di avvocato. Questo mi sembra normale e morale".
Accanto a questa "normalità" e "moralità" dell'atteggiamento del critico, Daney pone ripetutamente - e amaramente - a contrasto la "diversità" della sua posizione, ricercata ma anche connaturata al suo modo di guardare il cinema e il mondo, e trova nel Moretti di "Palombella rossa" ("Siamo uguali, ma siamo diversi") la giusta affermazione dell'impossibilità di articolare i due termini dell'individualismo moderno: singolarità e uguaglianza dei diritti. Lo sguardo critico è impensabile se non da una posizione il più possibile diversa e lontana dalla passività di chi si lascia imporre un punto di vista moralmente inaccettabile. Uno sguardo ostinato nel suo ritornare su ciò che si è visto, senza ammettere mai una vera e propria conclusione del discorso. Sono numerosi i paragrafi in cui Daney arricchisce di nuove considerazioni un breve commento su un film, tentando di districarsi fra i filamenti delle sue sensazioni immediate e arrivare il più possibile vicino al nucleo della questione.
È il contemporaneo mondo delle immagini a rendere necessaria la diversità; l'analisi non si ferma al cinema, ma è costantemente estesa alla televisione come prolungamento e negazione del cinema: "Noialtri cinefili siamo come persone che hanno imparato il latino in un mondo che parlotta un latino maccheronico". Il cinema diventa lo strumento privilegiato per interrogare l'audiovisivo in generale e Godard è di nuovo maestro nell'usare sia il cinema sia il video in direzione critica. Gli incontri con Godard, sempre più isolato nel suo eremo di Rolle, sono fonte di emozione e di profonde meditazioni sul linguaggio critico del cinema. Daney di fronte a Godard si pone in rapporto filiale, ma allo stesso tempo da compagno di strada, componente di quel "gruppo di amici" che ancora resiste all'imposizione dello sguardo dell'audiovisivo contemporaneo, di cui fanno parte anche gli Straub, sostenitori di una vera e propria "resistenza del cinema", Moretti e pochi altri.
Daney cerca con tutte le sue forze di mettere in pratica e di descrivere l'esperienza cinematografica attribuendole i connotati di quello che si potrebbe definire un "empirismo morale". Si tratta di una "seconda esperienza" che "mi permette di distinguere fra il mentire-vero e il mentire-falso (televisione)", in questo senso gli Straub sono un punto di riferimento essenziale, nel loro rifiutare ogni manipolazione del rapporto fra immagine e suono in presa diretta e nella costante ricerca di un discorso politico e morale fatto di rapporti di spazio e di classe.
Questo libro ci dice chiaramente che per Serge Daney la chiave interpretativa del mondo è nel cinema, e non stupisce leggere una pudica annotazione su un amore perduto seguita da alcuni appunti su "Chi ha incastrato Roger Rabbit". Fa tutto parte dello stesso discorso. Il cinema diventa un pretesto per parlare della vita e viceversa.
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